mercoledì 29 dicembre 2010

Cara sinistra, non offendere la nostra intelligenza


www ilgiornale.it

Si rompe il fronte: dalle fabbriche una lettera ai leader dell'opposizione. "Se salta l'accordo con Marchionne noi perdiamo il lavoro, voi no".

Cari Pier Luigi Bersani, Nichi Vendola e Antonio Di Pietro, ormai sono sei mesi che quotidianamente assistiamo e subiamo in modo perpetuo e scientifico al nostro stillicidio da parte vostra e dei dirigenti dei vostri partiti. La questione Fiat, ieri Pomigliano, oggi Mirafiori e domani chi sa cosa, non può comportare sempre e comunque l’offesa dell’intelligenza altrui.

Noi che abbiamo votato «sì» a quell’accordo ci siamo stancati di continue dichiarazioni tese a sostenere chi non aveva valide alternative da proporci. Noi che ogni giorno andiamo in fabbrica e che per 1.200 euro mensili lavoriamo sulla catena di montaggio, con una pinza a saldare, non accettiamo più questa ipocrisia da parte vostra.

Noi vorremo porvi alcune domande in modo che una volta per tutte ci capiamo fino in fondo:
1) Secondo voi, noi siamo contenti di lavorare in fabbrica?
2) Secondo voi, noi che guadagniamo 1.200 euro mensili non vorremmo guadagnare di più lavorando anche meno?
3) Secondo voi, oltre la proposta di Marchionne avevamo altro?
4) Secondo voi, se la Fiom avesse proposto una valida alternativa al piano Marchionne, invece di limitarsi alla legittimità del referendum ed esortare solo per un «no», l’avremmo fatto?
5) Secondo voi, se avessimo avuto una legge che tutelasse i lavoratori sulla malattia (cioè anche i primi tre giorni) non sarebbe stato meglio? Perché non avete riformato la Legge 2110 del Codice civile quando eravate al governo?
6) Secondo voi, se avessimo avuto una legge che prevedeva più pause durante il lavoro non era meglio? Perché non avete riformato i DLgs 66/2003 quando stavate al governo?
7) Secondo voi, è giusto che ai sindacati di base in Fiat non viene riconosciuto il monte ore e i permessi per il direttivo (perché non sono firmatari di contratto) e alla Fiom che non firma nulla viene riconosciuto tutto? Perché fate 2 pesi e 2 misure?
8) Secondo voi, continuando a dire che Cisl e Uil sono i sindacati servi dei padroni (lo dite anche in maniera indiretta) aiutate la classe operaia?
9) Secondo voi, gli operai si sono dimenticati di quando avete votato in Parlamento l’inizio del precariato attraverso il pacchetto Treu?
10) Secondo voi, difendendo le sole ragioni della Fiom state portando il giusto rispetto a quegli operai non iscritti alla Fiom?

Ecco, semplicemente quanto sopra scritto, senza fronzoli, senza tatticismo e senza parlare in politichese, parlando di chi vive una condizione di sopravvivenza, una condizione dove tutti urlano contro tutti, ma nessuno indica un cammino diverso e che soprattutto sia realizzabile.

Credeteci: quando diciamo che il Ccnl non è morto a Pomigliano e neanche a Mirafiori, credeteci quando diciamo che i diritti non sono caduti a Pomigliano o a Mirafiori, credeteci quando diciamo che bisogna cambiare il sistema, ascoltate anche noi che non siamo della Fiom. E se non ci credete domandate al ragazzo del bar che ogni mattina vi serve il caffè se ha un contratto, se ha le ferie, se ha il Tfr; oppure chiedete ai tanti lavoratori in nero qui a Napoli e sparsi per l’Italia se hanno mai avuto un contratto e se sanno cosa significa aver pagata la malattia. Uscite dall’ipocrisia elettoralistica e venite a parlare con noi. E dopo averci ascoltato fate vostre le nostre richieste per una vera alternativa di governo e non per battere solamente Silvio Berlusconi. Se volete, a fine gennaio faremo un’iniziativa sul lavoro. Siete tutti e tre invitati... se volete.

martedì 28 dicembre 2010

"Ecco il patto tra Fli e magistrati" Una toga è pronta a testimoniare




C'è un’alleanza per rovesciare Berlusconi. Clemenza sulla vicenda Montecarlo in cambio del no in Aula alla riforma della giustizia Strumenti utili Carattere
Solo una «simpatia» in chiave anti-Cav o addirittura un patto? L’ultimo gossip del Palazzo sul presidente della Camera riguarda un possibile retroscena del rinnovato feeling tra Gianfranco Fini (e i finiani) e la magistratura, «rivelato» in anteprima, la scorsa settimana, da Silvio Berlusconi.
Un abbraccio, quello tra Fli e le toghe, che si è fatto più stretto man mano che l’ex leader di An si allontanava dal Pdl, e che si è manifestato in dichiarazioni pubbliche, sia in contrasto con i periodici attacchi del premier alla magistratura che indipendentemente da queste.
Come è avvenuto nel caso, esemplare, dell’inchiesta romana sull’affaire monegasco: Fini da subito ha ribadito la propria fiducia nel lavoro dei pm capitolini e ha professato serenità. Poi è andata come si sa: richiesta di archiviazione da parte della procura, e protezione assoluta, una quasi inedita blindatura, della notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati per il presidente della Camera. Le toghe romane, che tra l’altro non hanno mai convocato Fini in una vicenda nel quale il suo ruolo era centrale, lo hanno indagato per truffa aggravata soltanto l’ultimo giorno utile, contestualmente alla richiesta al Gip di chiudere la partita, quando insomma non potevano farne a meno.
Finora, con un pizzico di malizia, si era attribuito il trattamento riservato all’ex presidente di Alleanza nazionale proprio alla sua nuova apertura nei confronti del potere giudiziario. Ma negli ultimi tempo una voce tutta da verificare circola con insistenza in alcuni ambienti politici. Ci sarebbe persino un testimone, pronto a giurare sull’esistenza di uno scenario diverso, un vero e proprio patto di non belligeranza tra il capo di Futuro e libertà e la magistratura. A far emergere quella voce sui giornali sono state le indiscrezioni del pranzo tra Berlusconi e gli eurodeputati del Pdl, lo scorso 20 dicembre. Lì Berlusconi ha attaccato duramente l’ex alleato, parlando appunto di un «patto» siglato tra Fini e l’Anm, l’associazione nazionale magistrati, secondo il quale le toghe avrebbero garantito protezione al presidente della Camera e ai suoi, e in cambio la terza carica dello Stato avrebbe assicurato lo stop a Montecitorio di qualsiasi legge «contro» i magistrati. Tanto che lo stesso numero uno dell’Anm, Luca Palamara, avrebbe passato alla finiana Giulia Bongiorno, presidente della commissione giustizia, il testo di quattro emendamenti al testo della legge sulle intercettazioni, prima «vittima» dell’accordo. Berlusconi, poi, ha smentito quelle dichiarazioni, Fini le ha definite «barzellette». Ma è esattamente questa la voce che gira sempre con maggiore insistenza nei corridoi del Palazzo, attribuita a un testimone attendibile, vicinissimo all’Anm, forse addirittura un magistrato, che avrebbe confermato l’intera storia, e rivelato l’ultima alleanza strategica di Fini: l’abbraccio col «partito delle procure», per sgambettare l’ex alleato.

martedì 21 dicembre 2010

MI SEMBRA DOVEROSO PUBBLICARLA, A VOI IL GIUDIZIO



.pubblicata da Mimmo Paternoster il giorno domenica 19 dicembre 2010 alle ore 15.47.

IO SONO UN POLIZIOTTO...

Io sono un poliziotto del Reparto mobile. Io c’ero martedì scorso. Ero a piazza del Popolo. A piazzale Flaminio. Ero sui mezzi a correre dove c’era bisogno. Ero ad ascoltare la radio, le richieste di aiuto dei colleghi in difficoltà. Ho letto i giornali. I gruppi di Facebook e i commenti su internet. La lettera di Saviano e gli editoriali di prestigiose firme e i commenti di gente normale. Vorrei poter dire che cosa si prova quando si è in piazza. Vorrei non dover leggere (tutte le volte) che i poliziotti scendono con l’animosità di chi si trova un nemico davanti. Noi non abbiamo nemici precostituiti. Noi non abbiamo nessuna voglia di menare le mani nè tantomeno di regolare dei conti. E quando leggo certe cose mi domando sempre: ma davvero c’è qualcuno che pensa che chi esce per lavorare lo faccia con la speranza di dover fare a botte? Noi lo sappiamo che oltre all’incolumità fisica rischiamo un avviso di garanzia o un’indagine interna nel caso si sbagli. La maggior parte di noi è sposata ed ha figli. Vi immaginate cosa prova quando gli dicono "è un atto dovuto. Nomina un avvocato". Io non dico che noi non sbagliamo mai. Sbagliamo. Io sbaglio. Ma vorrei con tutto il cuore che chi è chiamato, giustamente, a giudicare i nostri errori vivesse una giornata insieme a noi. Perchè quando senti urlare per radio "ci stanno massacrando" e riconosci la voce di uno dei tuoi amici ti vengono i brividi. Perchè nel cuore di tutti noi c’è il pensiero di poter essere quel finanziere solo a cui tolgono il casco. E perchè è un attimo che qualcuno ti salga sulla testa e ti spenga per sempre. Alla violenza non ci si abitua mai. Ricordatevi di Filippo Raciti. E’ morto per un colpo, che gli ha distrutto il fegato. Non per un colpo di pistola. Un sampietrino, un colpo di spranga, una molotov... possono uccidere. O lasciare segni che non passeranno mai. Sono un uomo come tanti. E faccio il poliziotto. Non sono il poliziotto migliore che ci sia. Forse ho colpito gente che non lo meritva. Ma io mi sono voltato a guardare piazza del Popolo dopo averla liberata dai manifestanti. E ho visto le carcasse delle auto bruciate, le vetrine infrante, la strada devastata, i monumenti imbrattati. E già sapevo che qualcuno avrebbe detto... "ma la polizia perchè ha permesso tutto questo?" O anche "è successo perchè i poliziotti hanno provocato". E sentivo il numero dei poliziotti feriti che saliva. Per me dietro ad ogni ferito c’è un nome e un volto. 57 feriti è statistica. 57 uomini sono 57 storie. Voi avete tutto il diritto di guardare al nostro lavoro con spirito e senso critico. Non mi voglio sottrarre alle valutazioni sulle mie azioni. Ma vorrei non venisse consentito a nessuno di giudicare il mio animo. Internet è pieno dei volti di manifestanti che raccontano di aver subito violenze da parte nostra. Alcuni hanno del sangue. Su internet non trovate i nostri volti. Le nostre ferite non le ostentiamo. Noi. Che non siamo diversi da "voi". Che non odiamo ma possiamo avere paura. Che non vorremmo dover colpire ma a volte dobbiamo farlo. Che mercoledì 22 saremo ancora in piazza. E sui mezzi che ci portano ore prima sui luoghi più caldi ci diremo che mancano tre giorni a Natale. E che... al ritorno... speriamo di essere tutti e di non dover pensare che c’è un collega a cui far visita in ospedale. Ora dovrei mettere un nome. Ma vi ho scritto cosa faccio, non chi sono. Per questo mi firmo..

Un poliziotto



lettera pubblicata sul corriere della sera di oggi

mercoledì 8 dicembre 2010

Il contrastatore



Il clima politico, sociale, ideologico ed economico che caratterizza la vita europea e italiana, e per molti aspetti opprimente oscurantista e cupo, ma dal torpore delle iniziative e di idealità, nasce, per reazione l’ideale romantico, Cultura e Politica.
D’altronde questo procedere di interventi contraddittori nell’interno del Governo nazionale fra le più alte cariche dello Stato condiziona fortemente l’evoluzione dello stato.
Poiché il problema nazionale é quello più acceso e sentito dal popolo, i politici devono rendersi coevi al nostro secolo, vi è la necessità di realizzare di creare un più stretto legame fra politica e cittadini.
Il tribuno contrastatore alla realizzazione al connubio fra finanza, giustizia e ideali patriottici non può nascondersi dietro il compiacente paravento dell’illegalità, dove si tratta meramente di contrattazione di potere politico.
Il tribuno, durante il periodo trascorso sullo scranno della terza carica dello Stato, dimentico dei doveri derivanti dalla sua carica di Presidente della Camera dei Deputati, incapace di contrastare la sua smisurata ambizione, incominciò ad accendere i tizzoni dei carbonari nelle due camere del potere.
Il crescente disagio della sua gente che rifiuta ormai apertamente la sua logica di potere, incapace di contrastare “la forza delle cose” attua fino in fondo il suo tradimento nel tentativo di attenuare gli effetti negativi della sua concezione di far politica.
Ma “la forza delle cose” diventa dirompente anche quando cerca di fronteggiare le situazioni.
Quando si rende conto che tanto il suo popolo, quanto i suoi colonnelli chiedono le sue dimissioni lascia il partito di cui era cofondatore per fondarne uno degno delle sue ambizioni, esiliandosi volontariamente, dove i partiti di rifiuto al governo legittimamente costituito lo accolgono con tutti gli onori, scordando l’errore che fece l’antica Troia quando trascinò il cavallo di legno nelle mura della sua città come simbolo della loro vittoria.
Lino ADAMO

domenica 5 dicembre 2010

Gli utili idioti



di Alessandro Sallusti

Pur di abbattere Berlusconi, Fini e Casini si fanno strumenti nelle mani di Bersani e Vendola E così rischiano di portare al potere un’ideologia bocciata dalla storia e dagli elettori.


Il presidente della Repubblica Gior­gio Napolitano s i è irritato perché il coordinatore del Pdl Denis Verdini avrebbe messo in dubbio l e sue prero­gative di arbitro del­la crisi. A parte che Verdini non ha detto esattamente così, va­l e l a pena d i ricorda­r e che s e Napolitano fosse coerente non dovrebbe considera­r e sacra e inviolabile l a figura del capo del­l o Stato. Nel 1991 in­fatti il suo partito, il Pci (fresco del nuo­v o nome Pds) e lui in prima persona furo­no protagonisti di un feroce attacco all'allora presidente Cossiga che sfociò nella clamorosa ri­chiesta di messa sot­to accusa per tradi­mento della Costitu­zione. Per Napolita­no l'inviolabilità del Colle non era un pro­blema anche anni prima, quando una falsa campagna stampa della sini­stra guidata da Euge­nio Scalfari costrin­se alle dimissioni il presidente Leone, poi risultato comple­tamente innocente. In realtà chi sta ti­rando per la giac­chetta Napolitano sono Fini e Casini. Non c'è infatti gior­no che i due non dia­n o per fatto e appro­vato u n dopo Berlu­sconi che esiste solo nella loro testa. E cioè: la maggioran­za non c'è più ma non si andrà a votare perché ne abbiamo pronta un'altra, i f a­mosi 317. Le cose stanno diversamen­te. Fini, Casini e i l o­ro uomini stanno semplicemente fa­cendo la parte degli utili idioti di chi, a si­nistra, d a sedici anni cerca inutilmente di disarcionare il cen­trodestra e vendicar­si dello scippo subi­to da Berlusconi nel 1994 di un potere che sembrava loro a portata di mano. Ci hanno provato con le Procure, poi col gossip, hanno oc­cupato la Rai: niente da fare. Si sono detti: vuoi vedere che due nostri nemici stori­ci, un fascista e un cattolico, possono portarci diritti sull' obiettivo? Detto fat­to: i due hanno ab­boccato, accecati dall'invidia per il Ca­valiere. Tanto d a an­nunciare già vitto­ria: siamo maggio­ranza, siamo in 317. I n realtà i due hanno 70 deputati, gli altri 247 sono comunisti, ex comunisti, man­giapreti, dipietristi, tutta gente che il giorno dopo una eventuale vittoria del Fli e dell'Udc fa­rebbe polpette. A ben vedere, i 317 non c i sono neppure sulla carta, tra defe­zioni certe e annun­ciate. E poi nessun governo, vecchio o nuovo, può governa­re con 317 deputati (solo 5 in più dell'op­posizione). Fini e Ca­sini stanno quindi parlando di un non senso numerico e po­litico. Stanno parlan­do di un grande im­broglio fondato sul tradimento degli elettori e aggravato da un patto col nemi­co. Per capirlo non c'è neppure bisogno d i scomodare Napo­litano.

sabato 20 novembre 2010

Carfagna verso dimissioni e addio al Pdl

Berlusconi: hai ragione, aspetta che torni
La lunga telefonata del premier appena giunto a Lisbona
Bossi: fiducia o no, Berlusconi si dimetta



ROMA (19 novembre) - Il premier Silvio Berlusconi pensa a un nuovo partito, «il "predellino-bis"», lo definisce il quotidiano di famiglia, il Giornale, che rivela le intenzioni del presidente del Consiglio. Hanno paura del voto, dice intanto il leader della Lega, Umberto Bossi che consiglia al premier di dimettersi anche se incasserà la fiducia. Intanto il ministro Mara Carfagna sembra avviato verso le dimissioni da governo e Pdl.

Carfagna verso le dimissioni. Il ministro delle Pari opportunità Mara Carfagna è sul punto di dimettersi dal governo e dal Pdl. La Carfagna starebbe valutando l'ipotesi di lasciare l'esecutivo e il partito, all'indomani della votazione di fiducia al governo prevista per il 14 dicembre, a causa di insanabili contrasti con i vertici campani del partito e per «l'incapacità» dei coordinatori nazionali del Pdl di affrontare i problemi interni al partito in Campania. A quanto si apprende, alla base della scelta anche «gli attacchi volgari e maligni» di esponenti del partito come Giancarlo Lehner, Alessandra Mussolini e Mario Pepe.

«Mara hai ragione. Su tutto. Io non voglio assolutamente che tu faccia passi indietro. Aspetta che io ritorni, cerca di capire che questo è un momento delicatissimo e complicato. Sistemiamo tutto». Silvio Berlusconi ce l'ha messa tutta, appena atterrato a Lisbona per il vertice Nato, per convincere Mara Carfagna a non fare passi precipitosi, a non dare corso all'intenzione di uscire dal governo e dal Pdl, subito dopo i voti sulla fiducia al governo del 14 dicembre. È stato a lungo al telefono il premier, con il ministro e con diverse altre persone, mentre un nubifragio si abbatteva sulla capitale portoghese e l'aereo della Repubblica Italiana, atterrato in perfetto orario rispetto allo slot, restava fermo sulla pista, lontano dalla scaletta con il tappeto rosso per la discesa.

Bagnasco: senza vita retta non c'è politica efficace. Non ci può essere una «politica efficace» senza un «vivere retto sia dei cittadini che dei loro rappresentanti». E se si smarrisce «la verità», «allo Stato non resta che affidarsi alle convinzioni che si rispecchiano nel consenso democratico». È uno dei passaggi centrali dell'intervento del presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, in occasione delle giornate di formazione promosse dall'intergruppo parlamentare della Camera e del Senato sul tema "Per vincere domani. Famiglia e lavoro al tempo della sussidiarieta".

Bossi: «Berlusconi faccia come Fanfani si dimetta anche se avrà la fiducia». Meglio andare alle elezioni, qualunque sia l'esito del voto previsto per metà dicembre, ribadisce Bossi, che spiega: «una volta Fanfani ebbe la fiducia e poi si dimise. Io la penso così, mancano i numeri, tutte le volte devi andare a chiedere i numeri». Perché il premier non si convince a seguire questa strada? «Berlusconi - risponde il senatur - è combattivo sempre, anche quando il combattimento prevede eventualmente la ritirata, non è una parola nel suo lessico, attacca sempre». «Se Berlusconi è saggio, va al voto e ritorna: prenderebbe un sacco di voti in più», dice ancora Bossi.

Bossi: hanno paura del voto. «Penso di sì, ma non è l'unico, c'è anche la sinistra». Così il leader della Lega, Umberto Bossi, replica ai cronisti che gli chiedono se a suo avviso Gianfranco Fini tema il voto.

Il Governo avrà la fiducia sia alla Camera che al Senato il 14 dicembre? «Penso di sì», dice poi Bossi. E in caso questo non avvenisse, secondo Bossi, la via maestra è sempre quella del «voto». «Da parte nostra no». Così il leader della Lega risponde poi ai cronisti che gli chiedono se, a suo avviso, sia in atto una compravendita dei parlamentari. E da parte del Pdl? «Spero di no. Berlusconi non è capace di comprare la gente».

Bossi poi risponde facendo le corna alla domanda dei giornalisti sulla possibilità di un governo tecnico, quindi aggiunge che se Giorgio Napolitano lo facesse «provocherebbe una reazione del Paese troppo forte» e sottolinea: «Il presidente della Repubblica è saggio. La speranza di Fini è quella del governo tecnico, ma non avverrà, non è possibile».

La Lega starà con Berlusconi fino a quando non saranno fatte le riforme, continua il leader della Lega.
Fino a quando la Lega seguirà Berlusconi, visto che il premier finora non ha ascoltato il suggerimento di andare al voto? «Fino a quando non abbiamo fatto le riforme», risponde Bossi. Quindi il voto anticipato potrebbe tenersi a marzo o addirittura a gennaio? «Vediamo quando saranno fatte le riforme», è la replica del ministro.

«E Berlusconi prepara il 'predellino-bis': Silvio fa un altro partito», è il titolo del pezzo del Giornale di oggi dedicato al nuovo predellino del premier, con riferimento al discorso fatto dal Cavaliere in piazza San Babila a Milano dal predellino della sua Audi in cui annunciò la nascita del Pdl. Il quotidiano poi afferma: in vista delle elezioni il premier avrebbe già «incaricato una società di marketing di disegnare un nuovo logo e un nuovo nome per il sempre più probabile ex Pdl». La decisione di «rottamare» il Popolo della libertà (nome che per il premier avrebbe «perso appeal» e inoltre non sarebbe «immediato e d'impatto»), sarebbe stata dettata dalla necessità di «dare una svolta anche d'immagine al partito e di recuperare lo spirito del '94 quando in pochi mesi scese in campo con Forza Italia e sbaragliò la gioiosa macchina da guerra delle sinistre guidate da Occhetto».

Quello che serve ora, per Berlusconi, è uno slogan nuovo di zecca che abbia una portata "rivoluzionaria" come fu con Forza Italia, «e non è del tutto escluso - scrive Francesco Cramer - che la formula Forza Italia venga in qualche modo riesumata». «Il cambio in corsa - si osserva - serve anche a escludere eventuali pretese dei finiani dopo l'uscita dal partito». Quindi «meglio tagliare la testa al toro e creare una nuova 'cosà». E per questa "missione impossibile" sarebbero «già in azione Claudio Scajola e Daniela Santanchè».

I finiani: nessuna "marcia indietro", semmai un appello a chi crede nel progetto di Futuro e libertà. «Io non faccio il Gran Premio, siamo al pit stop. Sono qui per parlare di altre cose», ha detto oggi il presidente della Camera Gianfranco Fini ha risposto a chi gli chiedeva dello "stop and go" del governo. Più chiaro invece il vicecapogruppo dei finiani alla Camera, Benedetto della Vedova, spiega così il senso delvideomessaggio di ieri di Gianfranco Fini, che aveva chiamato tutti al senso di responsabilità, premier in testa, e ad alcuni era parsa una sorta di "frenata". Della Vedova precisa che si è scelto di rinviare di un mese «l'appuntamento della chiarezza», e quindi «anche noi ora vediamo che succede».

Dal Pdl il capogruppo Fabrizio Cicchitto chiede ai finiani di dire che cosa vogliono fare, decidendo con chi stare. Secondo Cicchitto, il Pdl si è ricompattato, e sono anche falliti tentativi di intesa fatti da sinistra per attrarre la Lega, che resta un'alleata. In ogni caso, se il governo dovesse cadere secondo Cicchitto la via naturale sarebbero le elezioni anticipate.

martedì 16 novembre 2010

Lei mi ricorda Togliatti. Il comunista più odioso che abbia mai conosciuto.


Non a caso quelli della sinistra la trattano con tanto rispetto, anzi con tanta deferenza, su di lei non rovesciano mai il velenoso livore che rovesciano sul Cavaliere,contro di lei non pronunciano mai una parola sgarbata, a lei non rivolgono mai la benchè minima accusa. Come Togliatti è capace di tutto. Come Togliatti è un gelido calcolatore e non fai mai nulla, non dice mai nulla, che non abbia ben soppesato per sua convenienza. Dirige un partito che si definisce di destra e gioca a tennis con la sinistra. Fa il vice di Berlusconi e non vuole altro che detronizzarlo, mandarlo in pensione.



(Oriana Fallaci su Gianfranco Fini)

giovedì 11 novembre 2010

DOMUS AUREA,ROMA. QUEL CROLLO DELLE MURA AURELIANE (VELTRONI SINDACO, RUTELLI MINISTRO)



Roma - Il crollo della Domus dei Gladiatori a Pompei è l’ultima ferita subita dal patrimonio archeologico italiano. A Roma è ancora vivo il ricordo del cedimento alla Domus Aurea del marzo scorso, che riguardò una galleria che portava alla Terme Traianee. Ma, andando indietro nel tempo, il problema dei crolli ha riguardato anche le mura Aureliane, colpite ripetutamente in più punti. I casi più gravi sono stati quelli del 2001 e del 2007. Ad aprile del 2001, durante il commissariamento in Campidoglio di Enzo Mosino, si è verificato il crollo di una ventina di metri dell’antichissima cinta muraria, in via di Porta Ardeatina.

Un cedimento provocato dalle infiltrazioni di acqua piovana, nonostante nel 1999 il Comune, guidato allora da Francesco Rutelli, avesse speso circa 30 miliardi delle vecchie lire (fondi per il Giubileo) per restaurare lo stesso tratto. Un nuovo crollo si è verificato il primo novembre del 2007, quando si è sbriciolato un tratto di mura alto 10 metri e largo 15 lungo viale Pretoriano, nei pressi della Caritas, nel quartiere San Lorenzo. E ancora una volta una concausa fu individuata nelle forti piogge e nelle relative infiltrazioni d’acqua nell’antichissima struttura, mai rinforzata a dovere. Eppure, in quell’occasione il sindaco della Capitale Walter Veltroni, che nel primo governo Prodi dal ’96 al ’98 è stato responsabile dei Beni culturali, non ha chiesto le dimissioni del ministro Francesco Rutelli, che gli aveva lasciato il testimone alla guida della città. Cosa che non ha però esitato a fare per il ministro Sandro Bondi.



Il Velino

Veneziani: l’Italia ai piedi di Casini, il jolly anti-crisi




«All’armi son sfascisti», ironizza Marcello Veneziani all’indomani dell’ultimatum di Fini al Cavaliere: «La fanteria del Partito democratico, le truppe terrestri di Di Pietro, i siluratori subacquei di Fini, la flottiglia aerea dei pm, più i carri armati dei poteri forti». Tutti uniti da «un solo desiderio», e cioè «sfasciare Berlusconi e il suo governo», senza «un vero progetto comune» ma, a ben vedere, con un jolly buono per tutti: Pierferdinando Casini. Lo suggerisce il Fini «inacidito» di Perugia, a cui «fa eco un Bersani travestito da magazziniere delle Coop, con le maniche rimboccate come esige il copione della fiction di partito».
La “mattanza”, scrive Veneziani sul “Giornale” di Vittorio Feltri, è fissata prima di Natale, l’11 dicembre. «Ormai non ci sono più spazi di dialogo, eccetto uno», ovvero il «santino miracoloso» di Casini, che mette d’accordo «governativi e sfascisti», Berlusconi, Fini e Bersani, poteri forti e stampa. Berlusconi e Fini, ormai agli antipodi, arrivano alla stessa conclusione: per uscire dalla crisi ci vuole Casini. «Ma che avrà di così miracoloso questo Pierferdinando?». La sua collocazione strategica di ex-Dc «lo rende assai appetibile e prezioso per tutti». Da un lato, «basterebbe a Berlusconi per governare»; dall’altro, «darebbe qualche margine d’azione a Fini, a Bersani, a Montezemolo, a Rutelli».

Senza citarlo, anche il guru del Censis De Rita lo ha invocto dalle colonne del “Corriere della Sera” a guidare una coalizione di colombe, e persino il falco Maurizio Belpietro – aggiunge Veneziani – lo suggerisce a Berlusconi come suo successore. Lui, il ragazzo della provvidenza devoto alla Madonna di San Luca, che «fece le scuole elementari da Forlani, poi le medie da Berlusca che lo nominò capoclasse alla Camera, ma andò nel frattempo a lezioni private dai Caltagirone», dopo essersi scelto «per i lavori ingrati» Lorenzo Cesa e «come cappellano don Rocco Buttiglione». Senza aver fatto «nulla di significativo», ora è diventato il centro dell’universo politico italiano, il sole del sistema planetario dei partiti. «Per nessuno Casini è il Nemico o il Male, ma per tutti o per tanti è il Ripiego».

«Come Fini, anche lui è un politico di professione», continua Veneziani, «però è più accorto e meno astioso di Fini, fa i matrimoni giusti e non ha mai rinnegato le sue origini. E non ha mai tradito Berlusconi ma lo ha lasciato quando erano all’opposizione». Insomma, Casini «non si è mai sfilato dalla maggioranza» e, quando diventò presidente della Camera, «non mise in ginocchio il governo». Così l’Italia «è finita ai piedi di Casini», chiosa malinconicamente Veneziani, perplesso dallo strano destino dell’«Unico Democristiano Corteggiato, in sigla Udc»

I finiani: non si è risolto nulla. Bersani: «governo di transizione anche con Fli e Lega»




Sul reincarico è caos nella maggioranza
Berlusconi «Non mi dimetto, la sfiducia va votata in Parlamento» (7 novembre 2010)


Berlusconi resiste: «Fini mi sfiduci»
Sul reincarico è caos nella maggioranza

Il Pdl: «Avanti così o voto, no a un nuovo premier» Bossi: «Resto fedele a Silvio, mai con l'Udc»


L'arrivo di Bossi a Montecitorio per l'incontro con Fini (Lapresse)
MILANO - Il premier Silvio Berlusconi non ha alcuna intenzione di dare le dimissioni. Se Gianfranco Fini vorrà, potrà sfiduciarlo in Aula, alla luce del sole e davanti agli italiani. È questa la linea decisa a caldo dal presidente del Consiglio, in queste ore a Seul per il G20. Una presa di posizione emersa dopo diversi contatti telefonici tra il capo del governo e i dirigenti del suo partito, seguiti al faccia a faccia tra il presidente della Camera e Umberto Bossi. Berlusconi, insomma, sembra essere rimasto «al momento» sulle posizioni di qualche giorno fa: non ci sono alternative all'attuale esecutivo e quindi niente crisi pilotata e niente governo bis. A Berlusconi fanno eco i vertici del Pdl che, in una nota, fanno sapere di ritenere «inaccettabile» che la legislatura prosegua con un differente premier e un differente governo. «Andare avanti, senza escludere l’allargamento» della maggioranza, è, alla fine, la soluzione proposta dal Popolo delle Libertà e riferita da Ignazio La Russa.

L'ESECUTIVO BIS, FLI E LA LEGA - L'ipotesi di un reincarico al premier, emersa al termine dell'incontro tra il presidente della Camera e il leader della Lega, agita comunque le acque della maggioranza. «Lo spazio c'è ancora per non andare a una crisi al buio» ha detto Bossi lasciando la Camera, dove si è riunito con i principali esponenti del Carroccio al termine del vertice con Fini. «Molto meglio una crisi pilotata - ha aggiunto il Senatùr - che una crisi al buio». La Lega, pur ribadendo la fedeltà al presidente del Consiglio, è in sostanza aperta all'ipotesi di un reincarico a Berlusconi, a patto che lui sia d'accordo e che la porta all'Udc resti chiusa («può andare al mare...» è la considerazione di Bossi). Su un reincarico al Cavaliere il numero uno del Carroccio è apparso possibilista («le altre volte è avvenuto cosi, è andato dal presidente della Repubblica per avere il reincarico»), lasciando inoltre trapelare un sostanziale appoggio di Fini a questa soluzione. In realtà, le posizioni espresse dal presidente della Camera e dai suoi non sono esattamente in linea con quanto riferito da Bossi. «Le cose sono molto più complicate di come le presenta Bossi» ha detto lo stesso Fini commentando le dichiarazioni della Lega. Il leader Fli ha lasciato intendere di voler mantenere salde le convinzioni già espresse a Bastia Umbra: condicio sine qua non per una fase nuova sono le dimissioni del premier. A chiarire il concetto ci ha pensato il capogruppo dei futuristi alla Camera Italo Bocchino: «Fini ha chiesto le dimissioni di Berlusconi, altrimenti noi usciremo dal governo. Queste due cose sono certe, per tutto il resto aspettiamo che Berlusconi decida se dimettersi o meno» ha spiegato.

IL RILANCIO DI BERSANI - Il tentativo di Bossi di ricucire i rapporti tra i finiani e il resto della maggioranza non sembra dunque essere andato a buon fine. Tanto che il leader del Pd Pier Luigi Bersani ha azzardato l'ipotesi di un governo di transizione anche con Fli e Lega. Per il segretario dei democratici serve «un governo di transizione perché - spiega - vogliamo una ripartenza, non una nuova palude, perciò il tratto evidente dovrà essere la discontinuità».



I FINIANI: «NIENTE PASSI AVANTI» - Che non ci siano stati passi avanti concreti lo hanno confermato anche i commenti di alcuni esponenti finiani. Il vicecapogruppo Giorgio Conte ha dichiarato che «non si è risolto nulla». Fabio Granata, dai microfoni di Cnrmedia, è invece convinto che «si apre una fase piena di incognite per la politica italiana». I finiani hanno deciso di aspettare il rientro di Berlusconi da Seul prima di formalizzare la loro uscita dal governo, annunciata proprio dalla convention in Umbria. Nessun commento invece dal fronte leghista.

«INUTILE TRACCHEGGIARE» - Qualunque cosa si siano detti Bossi e Fini, per il Pd la crisi è comunque conclamata. «Qualsiasi incontro sposta di poco la situazione che è quella che è, chi la nega, chi traccheggia, fa un danno al Paese» ha detto Bersani. A chi gli ha riferito che, all'uscita dell'incontro, Roberto Maroni ha spiegato di non aver nulla da dire, il leader dei democratici ha risposto: «Se non ha nulla da dire lui... io resto convinto che non possiamo stare all'increspature. Seguo con relativo interesse questi abboccamenti, la crisi è conclamata, noi faremo anche le iniziative parlamentari necessarie, ma adesso basta».

giovedì 4 novembre 2010

Berlusconi è pronto a fondare un nuovo partito



di Adalberto Signore

La tentazione del presidente del Consiglio: recuperare lo spirito di Forza Italia del ’94 e cambiare nome e simbolo. Un "ufficio politico" affiancherebbe i tre coordinatori del partito. Il rischio dell'ostruzionismo da parte di Futuro e libertà. Il Cav: non darò pretesti polemici a Fini

Roma - «Del Pdl c’è rimasto solo il nome, sarebbe bene cambiare anche quello...». La battuta Berlusconi se l’è lasciata sfuggire qualche settimana fa, nei giorni di maggior tensione con Fini e quando le elezioni anticipate sembravano ad un passo. Non solo perché, questa la sua convinzione, «Po-po-lo-del-la-li-ber-tà ha un impatto mediatico piuttosto deludente e neanche lontanamente paragonabile alla più immediata Forza Italia» ma anche per rilanciare l’azione del partito e «recuperare lo spirito del ’94». D’altra parte, è proprio in quest’ottica che il Cavaliere continua a spingere l’acceleratore sui Team della libertà e sui Tea party, progetti di cui si stanno occupando Verdini e Santanché. Insomma, fosse per Berlusconi - lo ha ripetuto più volte nelle conversazioni degli ultimi giorni tra Arcore e Roma - la soluzione ideale sarebbe quella di tornare a quel Forza Italia che segnò la sua discesa. Una strada evidentemente non percorribile, perché anche il premier sa bene che gli ex An lo vivrebbero (giustamente) come un affronto.
La questione, però, è all’ordine del giorno. Al punto che c’è chi sostiene che Euromedia Research della Ghisleri si stia già occupando della pratica. Un nuovo nome, infatti, allo stato ancora non c’è. E le ipotesi che di tanto in tanto gli hanno buttato lì confidenti e collaboratori non sembrano aver convinto il Cavaliere. Di certo, non Forza Silvio che lo stesso Berlusconi ha definito «troppo autocelebrativo». Mentre pare che sia stato più cauto nel giudizio su Avanti Italia. Si vedrà, anche perché un cosa è la tentazione di cambiare nome una cosa è farlo davvero. Le intenzioni però ci sono tutte, tanto che il premier ha spiegato in diverse occasioni che il restyling dovrà passare pure per un nuovo simbolo. E chissà che sulla decisione non pesino anche alcuni delicati aspetti legali, visto che quello del Pdl è stato depositato davanti al notaio con le firme di Berlusconi e Fini. Insomma, nel caso di elezioni anticipate è possibile che il Fli tenti le vie legali per impedire al Pdl di presentarsi. E anche se alla fine il Cavaliere dovesse avere la ragione dalla sua - come sostengono i suoi legali - un’intervento dei Tar nella fase di presentazione delle liste sarebbe comunque un problema non di poco conto. Un rinnovamento non solo estetico se sul tavolo c’è anche l’ipotesi (concreta) di una sorta di partito «ombra»: la creazione di un ufficio politico con quattro-cinque componenti che si affianchi ai tre coordinatori Verdini, La Russa e Bondi e che si concentri sulla fase movimentista e su un’eventuale campagna elettorale. E già circola qualche nome, da Lupi alla Carfagna passando per la Santanché.
D’altra parte, che la strada battuta dal Cavaliere vada in questa direzione lo testimoniano anche le riunioni di ieri a Palazzo Grazioli. Dove con coordinatori, capigruppo e ministri si discute lungamente di come dovrà essere impostata la Direzione nazionale del Pdl in programma oggi. Con Berlusconi che non lascia dubbi: non voglio polemiche né un dibattito sullo stato del partito, ora abbiamo questioni più urgenti. Al centro della Direzione, dunque, ci sarà l’azione di governo. Anche se l’intervento del premier - che dovrebbe aprire la riunione - non sarà solo sui cinque punti programmatici. L’intenzione, infatti, è quella di allargarlo al decreto Tremonti sullo sviluppo e al Programma nazionale di riforma per Europa 2020 (su lavoro, formazione e sviluppo) che l’Italia deve presentare a Bruxelles entro il 12 novembre (se ne stanno occupando Tremonti, Ronchi e Frattini). Un discorso che potrebbe diventare una sorta di documento programmatico da usare come base di confronto quando si riuniranno le assemblee elettive dei nuovi coordinatori regionali e provinciali. Questione che però oggi non sarà affrontata e che è stata rinviata ad una Direzione che dovrebbe tenersi fra 15 giorni.
Quello del Cavaliere, assicura dunque Bonaiuti, non sarà un discorso di rottura. Ma un appello alla coesione. «Se qualcuno vuole strappare», spiega ai suoi il premier, «se ne deve assumere le responsabilità». Il cerino torna quindi a Fini. Anche se Berlusconi crede poco alla minaccia dell’appoggio esterno che, anche si concretizzasse, difficilmente porterebbe subito alla crisi visto che la via delle elezioni anticipate è decisamente più percorribile da gennaio. Un’ipotesi che il Cavaliere non scarta, altrimenti non si spiegherebbe la tentazione di rifondare il Pdl dalle fondamenta.

lunedì 25 ottobre 2010

Le dieci assurdità di Fini sull’aumento delle tasse









di Claudio Borghi

L'idea di alzare il prelievo sulle rendite è l'ultimo autogol del leader di Futuro e libertà. Colpisce le famiglie, fa fuggire i capitali all'estero e tradisce gli elettori

Ma che bella pensata! La prima proposta programmatica comprensibile a tutti di Fini è stata nientemeno che il raddoppio delle tasse sui risparmi, un livello addirittura superiore a quanto sognato in passato da Bertinotti. Fini non si è fatto quindi problemi a rinnegare un programma sulla base del quale è stato eletto e che aveva scritto in grosso e in rosso l’impegno a non alzare in nessun caso le tasse. Posto che la scusa di finanziare l’università è una foglia di fico - dato che i soldi non sono diversi - non si capisce perché, per reperire fondi, una tassa sui risparmi sarebbe meglio di, ad esempio, un taglio al suo stipendio o ad altri sprechi, ecco un piccolo promemoria dei motivi per cui quest’idea è dannosa, sbagliata e molto pericolosa.
1) I risparmi sono ciò che rimane da redditi già tassati. Non possono quindi essere messi sullo stesso piano degli altri guadagni.
2) L’interesse sui risparmi serve in gran parte a compensare l’inflazione. Se l’inflazione è il 2% e il rendimento dei Bot è l’1,5%, il risparmiatore ha in pratica perso soldi, non c’è nessun guadagno da tassare. Inoltre, gli investimenti si possono anche perdere, chiedere informazioni a chi aveva titoli Parmalat, Lehman, Cirio o, più semplicemente, a chi ha messo i propri risparmi in Borsa negli ultimi anni.
3) I beni accantonati delle famiglie sono una ricchezza dell’Italia e sono uno dei punti di forza che ci differenzia dagli altri Paesi, consentendoci una maggiore stabilità in periodi di crisi, nonostante le nostre debolezze profonde e strutturali. Criminalizzarli è come minacciare di bucare il salvagente che ci ha tenuto a galla.
4) Il denaro si può spostare con enorme velocità e semplicità. Se vi fossero proposte e timori sulle tassazioni, la conseguenza immediata sarebbe la fuga dei capitali (per i quali incertezza uguale pericolo) all’estero, così come avvenuto durante gli anni del governo di sinistra.
5) Non esiste nessuna «media europea» per i risparmi, dato che le aliquote, le esenzioni, le detrazioni e le franchigie sono del tutto diverse. In ogni caso, dato che il nostro Paese è meno affidabile politicamente e più a rischio degli altri (anche grazie a politici come Fini), in assenza di convenienza fiscale non si capisce perché uno dovrebbe lasciare i propri capitali depositati in Italia.
6) La tassazione sulle obbligazioni è una partita di giro per lo Stato (che pagherebbe interessi lordi più alti, riprendendoseli pari pari sotto forma di tassa), ma è un aggravio netto sulle obbligazioni societarie, gli emittenti delle quali dovrebbero pagare cedole lorde maggiori per offrire un rendimento netto accettabile senza potersi riprendere nulla. In un periodo dove le banche hanno stretto i rubinetti del credito, colpire l’emissione di titoli da parte delle imprese significa penalizzarle proprio nell’unico canale di finanziamento che si è rivelato efficace anche nei periodi peggiori della crisi e che ha salvato molte grandi aziende da conseguenze drammatiche.
7) I dividendi delle azioni vengono da utili rimanenti dopo una tassazione che è già fra le più penalizzanti in Europa. I guadagni da capitale, invece, sono un miraggio che, ai risparmiatori colpiti da ribassi epocali delle Borse e anni di rendimenti negativi dei fondi, suonerebbe come una beffa, mirata a colpire la speranza di un eventuale recupero dei prezzi dopo anni di sofferenza.
8) Gli italiani non sono obbligati a mettere i propri risparmi in titoli: è lo Stato che deve sperare caldamente che i cittadini gli usino la cortesia di finanziare il suo debito smisurato acquistando Bot e Btp. Inoltre, il risparmio dev’essere incoraggiato in quanto fonte di comportamenti virtuosi e autosufficienza famigliare. Se per un qualsiasi motivo il mettere da parte qualche soldo non dovesse essere più conveniente, un cittadino rimarrebbe comunque libero di andare a Parigi a spendersi la liquidazione in champagne e ballerine per poi tornare «da povero» e provare a chiedere un sussidio. Se il debito italiano non venisse più sottoscritto dai risparmiatori, addio stipendi, addio pensioni e (modesta consolazione) addio Fini.
9) La crisi ha comportato un aumento mondiale del debito pubblico: pertanto ci sarà sempre più competizione fra gli Stati sovrani per convincere i risparmiatori a sottoscrivere i propri titoli. Dato che il «porcellino salvadanaio» delle famiglie italiane fa gola a tutti e che una parte importante della nostra ricchezza è proprio reinvestita in Italia, gli unici che avrebbero da guadagnare se il nostro Paese diventasse meno accogliente per il risparmio sarebbero proprio gli altri Stati, pronti ad accogliere i denari in fuga con tappeti rossi e grandi risate indirizzate alla nostra stupidità. La sparata di Fini è in questo senso talmente dannosa per le nostre finanze che, se non dovesse derivare da errore, superficialità o faciloneria si potrebbe addirittura pensare che sia stata ispirata da qualche Stato estero, nel qual caso si tratterebbe di tradimento puro e semplice.
10) In regime di tassi bassissimi come l’attuale, a fronte dei danni di cui sopra, in ogni caso il gettito sarebbe minimo.
Ovviamente (sempre meglio specificarlo, non si sa mai) si suppone che l’ipotesi di aumento delle tasse si intenda sui titoli di nuova emissione, dato che, in caso contrario, sarebbe un rimangiarsi impegni dello Stato, analogo a un default. Ci sono in circolazione titoli anche trentennali venduti ai risparmiatori con la garanzia di una ben precisa tassazione. Nemmeno il governo Prodi aveva osato pensare di tassare lo stock di debito già emesso. Vorrebbe forse farlo Fini?

domenica 24 ottobre 2010

Nasce l’asse Fini-D’Alema per rovesciare Silvio



di Paolo Bracalini
Dopo lo stop del Colle, come due gemelli, il leader Fli e il notabile Pd si trovano d’accordo su molti punti a partire dalla giustizia. Il presidente della Camera: «No alla reiterabilità dello scudo. Il ribaltone? Se il governo cadesse sarebbe una fase nuova, non un golpe»


Roma «Il ribaltone? Non è un colpo di stato». Fini lo dice e D’Alema lo sottoscrive. A voler pensare male, gli ingredienti per una trappola a regola d’arte ci sono tutti. Il congegno è stato messo in moto dal rilievo di Napolitano, legittimo e sacrosanto (come si sono affrettati a commentare tutti, da sinistra a destra), sul testo del lodo Alfano. Improvvisamente, il quadro è cambiato, chiamando in scena due altri attori, con un copione in parte inatteso. Prima l’intervista a D’Alema, il gemello diverso di Fini, con l’appello alle forze responsabili di mettersi insieme per archiviare Berlusconi e formare un governo di coalizione. Quindi, l’ennesimo colpo alle spalle firmato dall’«alleato» Fini: «Su alcune leggi potremmo votare contro. E se ciò portasse alla caduta del governo, allora si aprirebbe una fase nuova». La prima occasione è proprio il lodo Alfano. La tattica è chiara. Gianfranco offre un accordo di massima sulla giustizia e poi affonda e svuota le parti fondamentali dello scudo. La parola d’ordine è: sfinire il Cavaliere fingendo di stringergli la mano.
E così, nel giro di pochi giorni, i finiani hanno compiuto una nuova giravolta, seguendo il senso tortuoso della tattica disegnata da Fini per ribaltare la maggioranza in Parlamento e saldando l’asse con il tattico del Pd, D’Alema. Il lodo retroattivo e reiterabile, votato così anche dai finiani, è così diventato un mostro giuridico, un obbrobrio da emendare al più presto. «Se la filosofia è tutelare la funzione quale che sia la persona - ha spiegato Fini - non credo che il Lodo possa essere reiterabile perché non sarebbe una tutela di una persona per un periodo di tempo, ma un privilegio garantito a una persona». Eppure, si chiedono nel Pdl, soltanto giovedì scorso la commissione Affari costituzionali aveva bocciato alcuni emendamenti dell'opposizione che proponevano, appunto, la non reiterabilità dello scudo giudiziario previsto dal Lodo Alfano. E con la maggioranza aveva votato anche il senatore Maurizio Saia, unico finiano a sedere nella prima commissione di Palazzo Madama.
E allora, cosa può essere cambiato in 72 ore, si chiede Osvaldo Napoli del Pdl. La domanda è retorica perché negli ultimi tre giorni qualcosa che può aver spinto Fini a insistere su quel punto è successo. Lo stop di Napolitano, appunto. Con il quale Fini, anche sfruttando la carica che ricopre, ha sempre cercato un rapporto privilegiato. Agli occhi dei falchi berlusconiani il tira e molla dei finiani, che prima collaborano al Lodo Alfano portandolo avanti nelle commissioni e votandolo insieme al Pdl, ma poi al minimo intoppo se ne chiamano fuori additandolo come una forzatura berlusconiana, appare come una tattica di puro logoramento. Se è questo lo spirito di collaborazione promesso da Fini per portare a termine la legislatura - ragionano nel Pdl - allora è meglio andare allo scontro.
Parlando Fini con «lingua biforcuta», per leggerne il pensiero conviene allora leggere quel che dice il suo alter ego del Pd, D’Alema, che ha un progetto identico a quello finiano («un governo con al più ampia base parlamentare possibile»), ma che a differenza del leader Fli può giocare a carte scoperte. Lo spettro di un governo tecnico, sostenuto da un qualche terzo polo, che cambi la legge elettorale (in chiara ottica anti-Cav) e poco altro. Il premier nuovo lo dovrebbe decidere il capo dello Stato, ed è per questo che ogni tensione tra Quirinale e maggioranza viene salutata con un brindisi dai terzopolisti. In primis Fini, solo per equivoco esponente dell’attuale maggioranza.

giovedì 21 ottobre 2010

Contro Fini i fan in rivolta: sei un quaquaraquà



di Francesco Cramer


Tanto ha soffiato sul fuoco dell’antiberlusconismo più feroce che alla fine Fini si è bruciato la faccia. Dopo il sì al lodo Alfano i dietrofront degli ex supporter: "Basta, me ne torno da Di Pietro". E i fan accusano il presidente della Camera: "Altro che libertà, siete 'futuro e retroattività'"



Roma - Tanto ha soffiato sul fuoco dell’antiberlusconismo più feroce che alla fine Fini si è bruciato la faccia. Sì perché le ultime mosse del suo Fli - via libera in commissione al Senato del lodo Alfano retroattivo e «no» alla richiesta di autorizzazione a procedere contro l’ex ministro dei Trasporti Pietro Lunardi - hanno scatenato il putiferio tra i suoi supporter. I quali hanno preso d’assalto il web e tolto la pelle ai finiani, nessuno escluso. La valanga di messaggi di «vergogna» non ha escluso nessuno: da Fini a Granata, passando per Bocchino e Filippo Rossi. Per mesi il presidente della Camera ha giocato a fare il neo Che Guevara capace di rovesciare la dittatura berlusconiana? Al primo sentore d’accordo con l’ex amico è partita l’accusa di collaborazionismo. Poi, vai a spiegare che in fondo anche in quel catino d’odio verso il premier che fu Mirabello Fini disse testuale: «Nessuno è contrario al lodo Alfano o al legittimo impedimento...». Tutto inutile. Il popolo finiano, sempre più viola, ha accusato il colpo e ora comincia a sbraitare: tradimento.
Sul sito di «Generazione Italia» si va dal «sono profondamente deluso, vi avrei dato il mio appoggio ma mi rendo conto che siete parte di una commedia» al «stamani alle 7 Bocchino era penoso». Un altro graffia: «Pubblicateli adesso i sondaggi di Crespi...». Mentre un altro smaschera la sua provenienza: «Dopo questa mossa torno da Di Pietro». C’è l’ira funesta di un (ex) simpatizzante: «Per quanto ancora vorrete continuare a sbandierare legalità e giustizia sociale per poi pulirvene il c. quando è ora di prendere decisioni? Fini lei è un qua-qua-ra-quà. Così come Granata (che stimavo) e l’italicoBocchino». E quella più fredda di un (ex) militante: «Questo tentativo di fingersi paladini della giustizia, mentre poi votate leggi vergognose sarà la tomba di questo partito». Uno la butta sull’ironia: «Fin quando Fli non tornerà sui suoi passi, nessuno si offenda se verrà usato l’appellativo “Futuro e Retroattività”. È più consono». Insomma, Fini ormai è ostaggio dell’antiberlusconismo militante.
Anche uno come Granata, comunque, non se la passa bene in queste ore. Sfiga ha voluto, poi, che proprio quando al Senato passava il lodo Alfano sul suo blog campeggiasse lo scritto dal titolo «La cosa giusta». Svolgimento: «Due elementi sono imprescindibili e rappresentano il vero perimetro pubblico e politico della nostra nuova impresa e dello stato nascente della nostra identità: la coerenza e l’esempio. La coerenza nei comportamenti parlamentari su “temi sensibili” come legalità e giustizia: quindi una chiusura netta a qualsiasi ulteriore legge ad personam...». Commenti dei militanti: «E come lo spiega il salvataggio di Lunardi di oggi? Ed essere favorevoli al lodo salvaberlusconi? Tante parole come tutti gli altri, ma siete solo dei paraculi... Se crede veramente in ciò che dice, per mantenere un minimo di dignità, se ne vada». Oppure: «Ma toglietela quella foto di Borsellino, dai... Non bestemmiare contro gli eroi morti». E ancora: «L’apertura di credito aperta nei confronti del Fli è già sepolta. Complimenti. Legalità, cosa giusta, coerenza: ma sapete di cosa parlate o blaterate a vanvera un tanto al chilo.

L’onorevole, spalle al muro, corre ai ripari con un altro scritto: «Bisogna riconoscere che opinione pubblica e gran parte dei nostri quadri e militanti sono disorientati. Ma se sul lodo la posizione di Fini è sempre stata favorevole... il voto su Lunardi è stato un grave errore politico... Auspico un ritorno degli atti in Aula, per votare compatti a favore dell’autorizzazione a procedere contro l’ex ministro Lunardi». E poi: «Una cosa è certa: da oggi dovrà discutersi ogni posizione e ogni voto d’aula per evitare che, nella distrazione in buona fede di alcuni, prenda il sopravvento il partito trasversale della conservazione». Ah sì? Ecco come risponde un militante: «La vera ragione della nascita di Fli era la voglia di Fini di comandare, di essere il numero 1, di avere il suo partitino con le sue truppe... Mi spieghi: tra le “distrazioni in buona fede di alcuni” c’è l’adesione di Catone, che per lei è meglio della Sbai, di Cuffaro persona diversa, di mister centomila preferenze, gli appalti alla suocera, Bocchino e Rai Cinema, l’appartamento a Montecarlo. E quante distrazioni, però!».
Ecco: non solo i casi Alfano e Lunardi. Un (ex) simpatizzante mette il dito nella piaga su altri temi sensibili in casa Fli: «Onorevole Granata, nella mia regione, l’Abruzzo, Fini ha da poche ore nominato l’onorevole Giampiero Catone nel ruolo di coordinatore regionale del comitato costituente del Fli. Proprio in questi minuti si stanno dimettendo tutti coloro che si sono spesi in questi ultimi mesi per il nostro movimento e futuro partito. Per favore intervenga al più presto per far tornare il presidente sui suoi passi, dopo l’evidente errore in cui è ingenuamente caduto. Il mio è un grido disperato e non devo certo spiegarle il motivo...».

lunedì 18 ottobre 2010

Il Secolo d'Italia si vergogna di essere di Destra


L'ex foglio fascista si vergogna di essere di destra
di Redazione

Gianfranco Fini ha una fortuna: che il suo giornale, il Secolo d’Ita­lia, lo leggono ormai solo Flavia Perina e i suoi parenti stretti, men­tre il sito di Farefuturo è visitato forse dai Briguglio e dai Raisi, per­ché già Granata e Bocchino han­no di meglio da fare. E deve davve­ro ringraziare il cielo che questa sia la situazione. Perché se i suoi potenziali elettori venissero a sa­pere quel che scrivono i maître à penser di Futuro e libertà, le sue già esigue speranze di raccoglie­re abbastanza voti da superare lo sbarramento del 4 per cento fra­nerebbero miseramente. Nell’ansia di distinguersi dagli aborriti «alleati» del centrodestra, i giornalisti futuribili si sono infatti spinti tanto lontano da scavalcare a sinistra la quasi totalità degli organi di stampa italiani. E dopo aver proposto cittadinanza breve e Corano a scuola, aver incensato Antonio Padellaro, Alberto Asor Rosa e Michele Santoro, ed essersi schierati con la Fiom contro il ministro Maroni, hanno finito la loro corsa in ginocchio da Eugenio Scalfari, celebrato come il loro faro editoriale in cambio di un paio di sputi sull’odiato Giornale . E così Barbapapà, in una intervista scendiletto di due pagine sul Secolo di ieri, ha potuto dire - tra gli applausi dei redattori ex fascisti - che la Repubblica è un giornale e fa giornalismo mentre il Giornale è un libello che lancia segnali mafiosi. Ma ancora niente a confronto di quel che ha vergato due pagine prima Filippo Rossi, uno dei reggipenna preferiti di Fini (forse ce l’avete presente: è quel signore grande e grosso che quasi tutti i giorni bofonchia qualcosa in tv). Il direttore di Farefuturo , uno che il ridicolo non sa neppure dove stia di casa, ha riempito di impervia prosa altre due pagine allo scopo di paragonarsi a Montanelli, Longanesi e Pannunzio e di esprimere tutto il suo disgusto per quel che combiniamo qui in via Negri. Dove, pensate un po’, abbiamo il cattivo gusto di fare un quotidiano che interessi un po’ di gente e venda un po’ di copie. Volgari. Dovremmo invece fare come lui, che viene letto da quattro gatti. Ma quelli giusti. Quelli dei salotti di sinistra che poi parlano così bene di lui, della Perina e di Fini e li fanno sentire tanto «in», ripuliti da quella patina di destra che dispiace alla gente che piace. Al dunque, è chiaro, i progressisti daranno il voto al Pd, ai comunisti, al massimo a Di Pietro, mica alle brutte copie finiane. Ma fino al momento di fare i conti con la dura realtà, gli scribi di Gianfri vogliono continuare a fare i saltimbanchi per raccogliere l’applauso di Repubblica.

sabato 16 ottobre 2010

In Piemonte il ribaltone anti Cota è già scritto



di Paola Setti


Il Pd vuol riprendersi in tribunale la Regione che ha perso alle urne. Il Tar dà una mano: i criteri di riconteggio delle schede aiutano la Bresso. Pdl e Lega: "Per votare lei bastava una croce, per votare noi ne servono due". Nonostante una sentenza che sconfessa i giudici

«Possiamo chiamarla presidente?» domandava ieri un divertito Claudio Sabelli Fioretti durante Un giorno da pecora. Risposta di una gongolante Mercedes Bresso: «Eh, così a naso...». Non che serva grande fiuto. Perché il riconteggio dei voti delle Regionali in Piemonte ancora non è finito, manca la Provincia di Torino e infatti ieri il Tar ha rinviato di 25 giorni la scadenza. Intanto però nessuno ha dubbi: a meno che il Consiglio di Stato non fermi l’infernale ingranaggio, l’ex governatrice Pd vincerà la partita contro Roberto Cota. Aveva vinto lui, alle urne, con 9372 voti in più. Fra 25 giorni avrà perso, nell’aula di un tribunale, con 15mila voti in meno, o giù di lì.
Ci sono delle certezze, perché, dicono tutti, dal centrodestra ai funzionari della Regione passando persino a una parte del Pd, questa è la storia di un ribaltone già scritto, perché no, la Lega che s’è presa il Piemonte, portandolo a casa del centrodestra, signore e signori non è cosa. La Bresso che, non prima del voto, ma solo dopo aver perso, fa ricorso contro due liste, Consumatori e Al centro con Scanderebech collegate all’avversario leghista. Il Tar che giudica illegittimo ciò che pure i giudici elettorali avevano ammesso, e decide il riconteggio dei voti. Il riconteggio che prende il via, ma con criteri che, denuncia l’avvocato Luca Procacci, legale del governatore in quanto legale della Regione, favoriscono la Bresso. «Per votare la Bresso basta una croce. Per Cota, che evidentemente non doveva vincere, ce ne vogliono due», riassumevano ieri i capigruppo di Pdl e Lega, Luca Pedrale e Mario Carossa. «Vogliono annullare voti validi» tuonava il giorno prima Umberto Bossi. Perché nel ricontare i circa 15mila voti delle liste contestate, i giudici amministrativi hanno deciso di considerare valide soltanto le schede con la doppia croce, una alla lista e una al presidente. Risultato: annullate l’80 per cento delle schede. «Eppure è evidente che, votando una lista collegata al presidente, l’elettore voleva votare anche il presidente» lamenta da mesi il centrodestra. Dice Procacci: «Solo un elettore su quattro ha fatto la doppia croce, per paura di annullare la scheda». Tant’è.
La speranza, spiega il legale, è che il Consiglio di Stato giudichi illegittimo il riconteggio. L’udienza è fissata al 19 ottobre, martedì. Procacci è fiducioso: «Perché vede, c’è già un pronunciamento precedente su una questione identica relativa a un sindaco, io non credo che i giudici potranno fa finta di niente». In effetti la sentenza del consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana del 21 luglio 2008 parla chiaro. Cita il principio «del favor voti per cui deve essere dato ogni possibile rilievo alla volontà espressa dall’elettore», e stabilisce che «l’eventuale invalidità del voto di lista (per erronea ammissione di essa) non può inficiare la validità dell’altro voto espresso dall’elettore per la scelta del candidato». E questo sia che il voto sia stato espresso con «doppio segno grafico», sia «con un unico segno sul simbolo di una lista che estende normativamente il voto anche al candidato Sindaco con essa collegato». Del resto esiste la possibilità del voto disgiunto. Quindi: «A prescindere dal numero di voti di lista invalidi perché espressi in favore di liste illegittimamente ammesse, il numero di voti ottenuti dai candidati a sindaco resta invariato».
Ieri lo staff di Cota ha scelto un’immagine macabra per rendere il clima: «È come se avessimo trovato un cadavere e ci avessero risposto: spiacenti, ma ne stiamo cercando uno diverso». Perché, conferma Procacci: «A Torino molti scatoloni non avevano il nastro originale, a Biella è scomparsa la sezione di Vigliano Biellese e lo stesso si è verificato ad Alessandria, il che magari non significa nulla, ma un po’ inquietante lo è». Questo per dirla in modo diplomatico, perché per dirla con Pedrale e Carossa: «L’unica cosa che questo inutile riconteggio dimostra è che Cota ha vinto le elezioni con uno scarto ancora maggiore, perché si sono scoperti moltissimi voti che non gli sono stati attribuiti».
Se il riconteggio sarà favorevole alla Bresso, il Tar a metà novermbre potrebbe decidere sia di proclamarla vincitrice, sia nuove elezioni. A questo punto il governatore leghista impugnerebbe la decisione del Tar, scatenando il controricorso del controricorso della Bresso. Diceva Bossi: «Se vogliono far perdere Cota si mette male la democrazia».

sabato 9 ottobre 2010

la Repubblica - Nel mirino dei pm e del Fisco 17 conti «segreti» di Marcegaglia






di Emilio Randacio e Walter Galbiati

Diciassette conti congelati, da «porre in collegamento con le dichiarazioni rese da Marcegaglia Antonio». È il Ministero pubblico della Confederazione elvetica, con una missiva spedita la scorsa settimana all’ufficio del procuratore aggiunto di Milano, Francesco Greco, a rialzare il sipario sui conti esteri della famiglia Marcegaglia. Una parte dei quali - quattro per la precisione - erano già stati scandagliati durante l’inchiesta Enipower, una storia di tangenti pagate per accaparrarsi commesse milionarie e che ha visto tra i numerosi protagonisti anche il rampollo della famiglia industriale mantovana. A marzo 2008 il figlio del fondatore del colosso dell’acciaio ha patteggiato una pena (sospesa) di 11 mesi per corruzione. E ha pagato oltre 6 milioni di euro.
Gli inquirenti svizzeri vogliono ora capire cosa fare di quei rapporti bancari, conti da paperoni intestati anche a Steno ed Emma Marcegaglia - presidente di Confindustria - gestiti da Antonio, e finiti nel frattempo sotto la lente dell’Agenzia delle Entrate di Mantova per verificare eventuali reati fiscali. Ma di che conti si tratta?
Per una decina d’anni, tra il 1994 e il 2004, il gruppo Marcegaglia era riuscito a interporre negli acquisti di materie prime e di macchinari alcune società offshore, in modo da creare fondi neri da depositare su conti esteri. Il meccanismo, noto a tutta la famiglia, era semplice: la Marcegaglia Spa non comprava direttamente l’acciaio, ma lo rilevava da alcune società di trading incaricate di riversare i margini di guadagno su appositi conti cifrati. Una di queste, la londinese Steel Trading, operava attraverso il conto Q5812712 presso la Ubs di Lugano. Le plusvalenze milionarie venivano poi trasferite sul conto Q5812710 aperto sempre presso la stessa banca svizzera e intestato a una società delle Bahamas, la Lundberg Trading. Il beneficiario finale dei conti era Steno Marcegaglia, padre e fondatore dell’omonima azienda.
Lo stesso meccanismo funzionava per altri due conti svizzeri, intestati a Steno e alla figlia Emma. La Scad Company Ltd che gestiva le vendite dell’acciaieria bulgara Kremikovtzi, versava in nero le differenze di prezzo della materia prima e i frutti economici di eventuali contestazioni favorevoli ai Marcegaglia sul conto cifrato 688342 della Ubs di Lugano. La Springleaf Capital Holding, la Cameo International e la Macsteel International Uk Ltd facevano le medesime operazioni per alcune acciaierie indiane. E sullo stesso conto cifrato della famiglia sono stati convogliati anche i proventi di due vendite in nero: il 31 gennaio 2004 un cliente iraniano ha versato 150mila euro per l’acquisto di un macchinario e ad aprile 2004 un cliente argentino altri 44mila euro per alcuni pezzi di ricambio venduti dalla Marcegaglia Spa. Tutte le provviste accumulate sul conto 688342, oltre un milione di dollari in poco più di un anno, sono state poi riversate sul conto cifrato 688340 della Ubs di Lugano, anch’esso riconducibile a Steno ed Emma. Complessivamente, i soldi transitati sui quattro conti sono nell’ordine di diversi milioni. Quando ad agosto 2004 sono stati chiusi i rapporti bancari della Steel Trading e della Lundberg, il saldo era di 22 milioni, un importo che la famiglia ha provveduto a trasferire a Singapore, prima dell’arrivo della magistratura.
«Si tratta di questioni legate a una società che all’epoca ha svolto una effettiva attività di trading di acciaio esclusivamente a prezzi di mercato, pagando regolarmente le tasse nel Paese di competenza. Società che, peraltro, ha già cessato da molti anni ogni sua attività», spiegano fonti ufficiali del gruppo Marcegaglia

Ora tutta la documentazione dei conti analizzati dalla procura di Milano è nelle mani del nucleo tributario della Guardia di finanza e della Agenzia delle Entrate di Mantova per verificare possibili reati fiscali, soprattutto connessi a compravendite in nero e a eventuali false fatturazioni. Mentre l’Autorità giudiziaria elvetica si trova con un elenco di conti sui quali sono transitati i frutti milionari del trading dell’acciaio e aspetta indicazioni dalla procura di Milano. Era stato Antonio Marcegaglia, nella ricostruzione davanti ai pm, ad alzare il velo su altri rapporti cifrati e a spiegare come venivano utilizzati quei fondi: si tratta di «risorse riservate - aveva messo a verbale il 30 novembre 2004 - che abbiamo sempre utilizzato nell’interesse del gruppo per le sue esigenze non documentabili». Con quei soldi venivano pagati estero su estero i bonus per i manager che lavorano al di fuori dell’Italia, come quelli che gestivano i rapporti con i trader russi e con i Paesi arabi, destinatari di commissioni e provvigioni per migliaia di dollari. «Per tutte le esigenze di questo tipo che avevo a Mantova - spiegava ancora Antonio Marcegaglia - mi facevo consegnare presso il mio ufficio il denaro che occorreva per pagare fuori busta dirigenti, collaboratori ed altro». A volte i contanti servivano per acquistare beni, come una Mercedes o un casale in Toscana. «Il patrimonio familiare - precisa oggi il gruppo Marcegaglia - si trova per la sua stragrande maggioranza in Italia, mentre una sua minima parte è all’estero e comunque in regola con le normative fiscali italiane».
Dall’estero, i soldi della famiglia arrivavano in Italia grazie a un vero e proprio servizio di «spallonaggio» che la Ubs offriva chiedendo una percentuale dell’1%. I conti d’appoggio li forniva sempre la banca elvetica. Dal rapporto cifrato 688340 intestato a Steno ed Emma Marcegaglia, per esempio, tra settembre e dicembre 2003, sono stati trasferiti sul conto della Preziofin Sa presso la Ubs di Chiasso oltre 750mila euro per essere poi prelevati in contanti e portati in Italia. Qualcosa come 3 milioni di euro più circa 800mila dollari sono stati trasformati in denaro sonante tra il 2001 e il 2003 dal conto cifrato 664807 aperto nella filiale Ubs di Lugano. Allo stesso servizio obbedivano i conti 614238 presso la Ubs di Chiasso e il conto intestato alla Benfleet presso la filiale di Lugano.
Un altro conto d’appoggio e riconducibile ad Antonio Marcegaglia è il conto «Tubo». Qui per esempio nel ’97 sono stati versati dal conto Lundberg 1,6 milioni di dollari per pagare parte dell’acquisto dello stabilimento di San Giorgio di Nogaro. E, secondo la ricostruzione del rampollo di casa Marcegaglia, anche i versamenti effettuati sui conti «Verticale», «Vigoroso», «Borghetto» e «Diametro» (poco più di 2 milioni di euro) non sono altro che pagamenti in nero, l’ultimo dei quali a maggio 2003, destinati alla Mair Spa di Thiene per l’acquisto senza fattura di un macchinario per la fabbricazione di tubi.
Ininterrottamente poi dal ’97 al 2004 è stato alimentato un conto cifrato (JC 251871) presso la Ubs di Lugano: 175 milioni di lire l’anno, finché era in voga il vecchio conio, e 90mila euro l’anno con l’avvento della moneta unica. «Trattasi di pagamenti in nero a favore dello Studio Mercanti di Mantova in relazione a consulenze di tipo amministrativo», ha dichiarato Antonio Marcegaglia. Lucio Mercanti è il presidente del collegio sindacale del gruppo mantovano, proprio colui che è preposto a vigilare sui bilanci della società.

Una brutta faccenda



Veramente una brutta faccenda, una losca storia di intrighi, poteri oscuri che si intrecciano fra loro in maniera talmente fitta da non farne intravedere neanche l’inizio, intercettazioni ed intercettati, insomma un parapiglia che sta sempre più degenerando.
A pochi giorni dal tentativo di omicidio del Direttore di Libero Dott. Maurizio Belpietro e le minacce che lo stesso Direttore ha ricevuto, ecco la perquisizione nella sede de “IL GIORNALE”. Che strano, non trovate? Tutto questo nel giro di pochi giorni, come se dietro ci fosse una sorta di progetto il cui unico obiettivo è accecare e silenziare chi non la pensa come la stragrande maggioranza dei media e della carta stampata.
Quando l’Unità è stata querelata per tutto il fango gettato addosso a Berlusconi, quando Repubblica viene messa all’indice per la persecuzione mediatica di 90 giorni consecutivi contro il Presidente del Consiglio, sono scesi tutti in piazza per manifestare sulla violazione della libertà di stampa. Hanno manifestato il sindacato dei giornalisti, i partiti politici del centro sinistra, le sigle sindacali unitarie, i no global. Ci mancava l’arcigay e saremmo stati al completo!
In questo caso invece, a parte gli attestati di stima e vicinanza (attestati falsi e di facciata), nulla si è detto e nulla si è fatto. Se non fosse che il Direttore di Libero e il Giornale sono conosciuti, tutto sarebbe passato senza neanche una parola.


E’ la libertà di stampa dove la mettiamo? Libero ed Il Giornale non sono testate giornalistiche alla pari dell’Unità e di Repubblica? Oppure sono da considerare giornali (e giornalisti) di seconda fascia?
Eppure anche questo è un tentativo di ridurre al silenzio la libertà di stampa, anche questo è un becero tentativo di imporre un manto nero al giornalismo, anche questo dovrebbe far scattare l’impulso di scendere in piazza a protestare.
Invece nulla, silenzio, gettato nel dimenticatoio.
Si, è proprio una brutta faccenda che non può e non deve passare inosservata, altrimenti rischiamo di cadere in un buco ancora più profondo di quello in cui siamo cascati da 20 anni a questa parte.
Se si incomincia a chiudere un occhio su certi gravi fatti, poi si corre il pericolo di chiuderli tutti e due su altri e magari si fa come le tre scimmiette “Non vedo, Non sento, Non parlo”!
D’altra parte siamo in Italia, mica in America …. O no?
Giacomo Bianchi

giovedì 7 ottobre 2010

Gelmini: «Inaccettabili le parole di Moffa, nelle università non si insegni l'odio»




Il ministro dell'Istruzione attacca le lezioni negazioniste del professore dell'Università di Teramo

MILANO - «Le parole pronunciate sono inaccettabili, offendono profondamente la memoria degli ebrei morti nelle camere a gas. Non è possibile che nelle università italiane insegnino professori che seminano odio». Così il ministro dell'Istruzione, Mariastella Gelmini, in una dichiarazione al Tg5, ha commentato la lezione sul revisionismo e la negazione della Shoah tenuta dal professor Claudio Moffa, ordinario di Scienze Politiche all'Università di Teramo.

LA TESI NEGAZIONISTA - «Non c'è alcun documento di Hitler che dicesse di sterminare tutti gli ebrei» ha detto Moffa, lo stesso docente. Ed è subito polemica, come nel 2007, quando Moffa invitò all'università, nell'ambito dello stesso master, lo storico negazionista francese Robert Faurisson per un incontro con gli studenti, che non si svolse per la decisione dell'ateneo di chiudere il Campus per motivi di ordine pubblico. Anche oggi le posizioni negazioniste del docente scatenano la reazione del mondo politico. «Qui non c'entra niente la libertà di espressione - spiega l'ex ministro dell'Università Fabio Mussi - c'entra l'odio razziale e l'apologia del nazismo che fino a prova contraria sono reati». Sempre al ministro Gelmini si rivolgono i senatori del Pdl Ombretta Colli, e dell'Idv Alfondo Mascitelli, che chiedono di intervenire al più presto per rimuovere il professore.

mercoledì 6 ottobre 2010

Burqa e niqab, verso la legge per vietarli



Governo: «Ma senza mai citare l'Islam»

il parere dell'esecutivo inviato alla commissione Affari costituzionali della Camera che esamina le proposte di legge



ROMA (6 ottobre) - Più vicina la legge per vietare il burqa ed il niqab in Italia. Ma senza fare riferimento all'Islam, considerato che indossare il velo integrale non è un obbligo religioso. Non c'è infatti traccia di ciò nel Corano. Questo il parere che il governo ha inviato alla commissione Affari costituzionali della Camera che sta esaminando le proposte di legge in materia. Il documento, illustrato dal sottosegretario all'Interno, Alfredo Mantovano, è quello proposto dal Comitato per l'Islam italiano istituito presso il Viminale.

Le proposte all'esame della Camera puntano a modificare l'articolo 5 della legge 152 del 1975 che vieta l'uso di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in un luogo pubblico, senza giustificato motivo. Diversi di questi testi introducono tra i mezzi soggetti al divieto, «gli indumenti femminili in uso presso le donne di religione islamica denominati burqa e niqab». Una formulazione che non piace al Comitato composto da esperti di islam, perché ritenuta inesatta e a rischio di alimentare polemiche. Il parere, fatto proprio dal governo, ricorda infatti che l'uso del niqab (indumento che copre il capo e buona parte del busto lasciando scoperti soltanto gli occhi) e del burqa (che copre tutto il corpo compresi gli occhi) non ha un'origine coranica. Indumenti simili sono stati usati in diverse zone in epoca romana, bizantina, persiana. Portarli non è dunque «un obbligo religioso». Non c'è un «nesso causale» tra burqa e niqab da una parte e religione islamica dall'altro.

La legge in materia dovrà quindi, secondo il governo, tenere prioritariamente in conto «la considerazione di ordine pubblico secondo cui persone travisate in modo da non essere riconoscibili non possono essere identificate dalle forze dell'ordine, individuate dai conoscenti e, se del caso, descritte dai testimoni. La riconoscibilità delle persone deve essere garantita, tanto più a fronte del rischio internazionale collegato al terrorismo». Il documento raccomanda però di «omettere dai testi di legge ogni riferimento alla religione o all'islam, limitandosi alla formulazione secondo cui nel divieto devono intendersi ricompresi "gli indumenti denominati burqa e niqab", prescindendo dalle motivazioni che spingono le persone ad indossarli». L'obiettivo, si sottolinea, è quello di «deconfessionalizzare» la legge per non alimentare polemiche. Il parere suggerisce inoltre di modificare parallelamente l'articolo 85 del Testo unico di pubblico sicurezza con il riferimento ad un divieto incondizionato all'uso in luogo pubblico «di qualunque mezzo o indumento atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona»; inserendo quindi una norma per cui «l'autorità locale di pubblica sicurezza può con apposito manifesto prevedere deroghe al divieto», il che consentirebbe di autorizzare, ad esempio, l'uso del burqa o del niqab nelle moschee.

sabato 2 ottobre 2010

«Ci rubano lavoro». L'offesa svizzera con quel topo anti italiano




Transfrontalieri rappresentati da tre ratti. Uno si chiama Giulio e ha uno scudo con tre monti


I cartelloni anti italiani
«Noi lombardi e voi ticinesi parliamo la stessa lingua. Tutti e due diciamo "va' a da' via 'l cul!"», tuonò allegro l'allora sindaco leghista di Milano Marco Formentini in «visita ufficiale» ai «cugini». Cugini? Dipende. E lo dimostra l'infame campagna contro i «ratti» italiani lanciata contro i nostri frontalieri. È da un pezzo che la Lega ticinese, per bocca del suo leader Giuliano Bignasca (dimentico di essere stato condannato nel '93 dalla Corte di Lugano per aver impiegato una dozzina di operai jugoslavi senza permesso di lavoro) insiste nella stessa accusa: i lavoratori comaschi, varesini, verbanesi «rubano il lavoro agli svizzeri». Un'ossessione. Che ha spinto La Provincia di Como, che pure sinistrorsa non è, a titolare: «C'è sempre un leghista più a nord di noi».


Un'accusa vecchia. Basti ricordare quanto scriveva James Schwarzenbach, che scatenò tre referendum (e nel primo sfiorò la vittoria) contro i nostri immigrati e in particolare le loro mogli e i loro bambini: «Sono braccia morte che pesano sulle nostre spalle. (...) Dobbiamo liberarci del fardello. Dobbiamo, soprattutto, respingere dalla nostra comunità quegli immigrati che abbiamo chiamato per i lavori più umili e che nel giro di pochi anni, o di una generazione, dopo il primo smarrimento, si guardano attorno e migliorano la loro posizione sociale. Scalano i posti più comodi, studiano, s'ingegnano: mettono addirittura in crisi la tranquillità dell'operaio svizzero medio, che resta inchiodato al suo sgabello con davanti, magari in poltrona, l'ex guitto italiano».


Per questo sono più indecenti, quei ratti usati contro i frontalieri. Perché arrivano nella scia di una via crucis segnata da tappe di indicibile dolore. La spedizione punitiva di squadracce armate che a Goeschenen nel 1875 spararono uccidendo sugli operai che costruivano il tunnel del San Gottardo e si erano ribellati alla morte dell'ultimo di 144 compagni ammazzati dalle esplosioni di dinamite, dai crolli, dalle fughe di gas... E poi giorni di caccia all'italiano nel 1896 a Zurigo, quando le autorità dovettero organizzare treni speciali per rimpatriare i nostri, terrorizzati. E la chiusura della sala d'aspetto di III classe della stazione di Basilea agli «zingari d'Italia» in transito, in larga parte piemontesi, lombardi, veneti. E la scandalosa sentenza d'assoluzione per la strage di Mattmark. E l'uccisione per motivi razziali di poveretti come Vincenzo Rossi (buttato dal padrone in un altoforno), Attilio Tonola o Alfredo Zardini, ammazzato a pugni e calci da un razzista che fu condannato nel 1974 a 18 mesi.

Certo, la nostra storia in Svizzera non può essere ridotta solo a questo. Tantissimi italiani, sia pure spesso dopo grandi sofferenze, sono riusciti a integrarsi benissimo. A guadagnarsi la stima, l'amicizia, l'amore dei nostri vicini. E sarebbe ingiusto non ricordare, con le cose che ci hanno dato dolore (ad esempio il rifiuto della cittadinanza ancora nel 2004 ad Armando e Giuseppina Colatrella, che arrivarono nella zona di Lucerna nel 1960 e da mezzo secolo lì lavorano e pagano le tasse) anche tutte le cose positive, molto positive, che hanno segnato i nostri rapporti.


Ma proprio perché accanto alle luci ci sono state ombre, è inaccettabile la campagna partita su Internet (ma già pronta a finire sui muri di tutto il Ticino) con tre topastri presentati ciascuno con una piccola scheda. Il primo chiamato Fabrizio, piastrellista, di Verbania. Il secondo Bogdan, rumeno, sfaccendato. Il terzo Giulio, italiano, avvocato, e per non lasciare dubbi sul cognome, dotato di uno scudo con tre monti. Eccoli, i nuovi nemici del benessere svizzero: il frontaliero italiano, il vagabondo rumeno, il ministro delle finanze di Berlusconi, reo di aver varato lo scudo fiscale che avrebbe danneggiato le banche elvetiche. Titolo della campagna: «Bala i ratt...». Cioè: ballano i topi...
Sono mesi che La Provincia di Como pubblica paginate sui timori dei circa 50mila italiani che ogni giorno attraversano la frontiera per lavorare in Svizzera, dove certo non avrebbero potuto inserirsi in questi anni se non ci fosse stato bisogno di loro. Un titolo? «Lega contro frontalieri: "Ci rubano il lavoro"». Un altro? «Stretta in Ticino: "basta infermieri dal Comasco"». La campagna coi topi sul sito www.balairatt.ch va però oltre. E supera perfino i manifesti con le pecore bianche che scalciano fuori dalla Svizzera una pecorella nera presentati dalla Svp (Udc nei cantoni francese e italiano) di Christoph Blocher, noto per aver detto che l'articolo 261 bis del Codice penale svizzero che punisce la discriminazione razziale e chi nega l'Olocausto gli fa «venire il mal di pancia».


E se i leghisti ticinesi, per ora, si chiamano fuori da questa forzatura, ci sono deputati cantonali come Pierre Rusconi che non solo sono d'accordo ma si augurano che sia questo il tema della prossima campagna elettorale. Marco Zacchera, deputato del Pdl e sindaco di Verbania, ha già presentato un'interrogazione parlamentare: non ritiene il governo «che questa campagna abbia schietta impronta demagogica e anche razzista e sia in netto contrasto con gli accordi vigenti italo-svizzeri»?


Ultima annotazione: Michel Ferrise, l'ideatore della campagna, ha detto che l'anonimo committente gli aveva «chiesto di trovare un'idea originale che portasse i ticinesi ad aprire gli occhi su determinate questioni» e che aveva scelto i ratti perché «il ratto è qualcosa di spregevole» e contiene «il concetto di "derattizzazione"». Che sia razzista, non c'è dubbio. Originale no. Lo dice una vignetta pubblicata un secolo fa dalla rivista americana Judge in cui il vecchio zio Sam assiste corrucciato allo sbarco, da una nave proveniente «direttamente dalle topaie dell'Europa», di migliaia di topi di fogna coi baffi alla figaro che hanno scritto sui cappelli o sul coltello che reggono tra i denti: «Mafia», «Anarchia», «Assassinio»...
È passato un secolo, e noi italiani, grazie a quelli come il signor Ferrise e i suoi committenti, siamo alle prese ancora con le stesse porcherie...

Gian Antonio Stella

giovedì 30 settembre 2010

La fiducia patacca di Fini



di Alessandro Sallusti

L'ex leader di An vota sì al discorso di Berlusconi per prendere tempo: poi lo pugnalerà alle spalle. Martedì il presidente della Camera si fa il partito ma non vuole mollare la poltrona

La fiducia c’è ma si an­drà a votare perché la maggioranza nu­merica non corri­sponde a quella politica. Il «sì» al discorso di Berlusco­ni votato dal gruppo dei fi­niani è infatti una patacca, uno stratagemma per prendere ancora un po’ di tempo prima di pugnalare alle spalle la maggioran­za. Poco tempo, quello ne­cessario per trasformare il gruppo parlamentare in un partito. Il primo passo è già stato fissato per mar­tedì prossimo. Questa è la sintesi di quanto è accadu­to ieri alla Camera dove il governo ha superato l’ostacolo solo grazie ai vo­ti dei finiani ( e del governa­tore siciliano Lombardo). Ovvio che da oggi Pdl e Le­ga da soli non hanno i nu­meri per garantire che la le­gislatura vada avanti se­condo i patti stabiliti con gli elettori.

Berlusconi ha fatto un ul­timo tentativo, violentan­do la propria indole batta­gliera, forse un’ultima con­cessione al gruppo delle colombe che lo circonda. Ha parlato con tono paca­to di senso di responsabili­tà, ha spiegato la necessità di andare avanti, ha elen­cato le non poche cose fat­te, ha prospettato quelle da fare. Su quest’ultime è stato intransigente. Su quanto promesso agli ita­liani, ha detto, non si trat­ta, quindi «sì» senza condi­zi­oni alla riforma della giu­stizia (compresa la difesa della politica dagli attac­chi della magistratura) e «sì» al federalismo subito. Cose inaccettabili per Fi­ni, che nel rallentare ed an­nacquare entrambe le ri­forme vede un doppio gri­maldello: far cadere per via extraparlamentare Ber­lusconi e far saltare il patto di ferro tra questi e Bossi. La manovra a tenaglia era e resta il piano inconfessa­bile del presidente della Camera, che in questo ha buoni alleati: magistrati e opposizione.

Che Fini non possa più essere il presidente della Camera, da ieri è evidente a tutti. L’aver permesso a Di Pietro, contro ogni buon senso e regolamen­to, di insultare il premier, il suo malcelato compiaci­m­ento per quell’aggressio­ne fatta di ingiurie, sono solo il sintomo più eviden­te che non è più un arbitro imparziale. Non solo. An­nunciare la nascita del nuovo partito senza con­temporaneamente rimet­tere il mandato è l’ennesi­ma furberia che stride con la richiesta di etica e lealtà politica sbandierata dal Fli. Certo, se la legislatura dovesse proseguire, Fini, come abbiamo scritto ieri, difficilmente potrebbe re­stare al suo posto. Ma con l’avvicinarsi delle elezioni il calcolo cambia. E diven­ta: resto, così mi faccio pa­g­are la campagna elettora­le dalla Camera invece che dal partito, e sfrutto la carica istituzionale per una visibilità che altrimen­ti non avrei.

Un partito di imbroglio­ni, insomma, che dice di voler rimanere nella mag­gioranza ma non ha speso una parola contro Di Pie­tro, che vota una fiducia nella quale non crede, che per quindici anni ha condi­viso con entusiasmo ed enormi vantaggi scelte e strategie di Berlusconi e che ora scarica tutti i pro­blemi su di lui, come se fos­se stato da sempre all’op­posizione o sulla Luna.

Maroni ha tirato le som­me della giornata: si va a votare tra marzo e aprile. Credo che abbia ragione e che sia meglio così. Gli elettori capiranno chi ha tradito e perché.

lunedì 27 settembre 2010

Il presidente "super partes" cerca di fare acquisti


E adesso? E adesso è una parola... Il minimo che si può dire è che il videomessag­gio ha terremotato il piccolo mondo finiano, che si aspetta­va qualcosa di diverso, un di­scorso molto più duro - gli uni -, molto più chiarificatore sui misteri monegaschi - gli altri. Comunque lo si guardi, da fal­chi o da colombe, un messag­gio insoddisfacente, non riso­lutivo, debole. E nemmeno co­me viatico per la pace col Pdl le parole di Fini possono esse­­re ritenute sufficienti, perché­per accontentare l’ala bocchi­niana - ha comunque inserito elementi polemici contro il Cav nel discorso tanto atteso dopo quello di Mirabello; sul dissenso che non avrebbe do­micilio nel Pdl, su un rapporto con la magistratura sano ri­spetto a quello dei berlusco­niani, sulla riforma della giusti­zia per i cittadini e «non per ri­solvere i problemi personali» (una strizzatina d’occhio al­l’opposizione). Come parole di pace con il Pdl, non sono il massimo. E così, malgrado il barometro sia lievemente cambiato rispetto a prima, le nuvole nere all’orizzonte non sono ancora scomparse, anzi. Nel Pdl si fa notare un fatto non irrilevante, che pesa sulla credibilità di Gianfranco Fini come terza carica dello Stato, in una situazione di scontro co­sì aperto e violento che lo vede in prima linea. Un episodio che si è verificato giovedì, qual­che ora prima della conferen­za stampa della (ex) deputata finiana Souad Sbai per annun­ciare il suo passaggio (anzi, rientro) nelle file del Pdl. Fini, raccontano le fonti, ha convo­cato la Sbai nel suo ufficio per raccogliere le sue valutazioni e sondare la possibilità di non farla passare col Pdl. L’aritme­tica, in questa crisi della mag­gioranza, è diventata più deter­minante della politica, e Fini sa bene che una pedina in più o in meno può rafforzare o in­debolire il suo peso al tavolo delle trattative col Cav (o con l’opposizione). Ma il punto, che nel Pdl è un argomento di discussione seria in queste ore, è il seguente: può un presi­dente della Camera essere considerato imparziale se poi è la stessa persona che si spen­de per convincere un deputa­to a stare in un gruppo alla Ca­mera invece che in un altro? La risposta che si danno tutti è negativa. Fini si trova nella situazio­ne, eccezionale nella storia della nostra Repubblica, di es­s­ere il capo di un gruppo parla­mentare che non esisteva al momento del voto e che è sta­to eletto con un partito con cui ora è in polemica, e contempo­raneamente a rappresentare la totalità del Parlamento pur parteggiando per una sola par­te di esso, che vorrebbe - è na­turale- più nutrita e forte possi­bile. Torna, insomma, il tema dell’opportunità che Finilasci la presidenza della Camera, per dedicarsi senza più ambi­guità al suo ruolo di fondatore di una nuova ala, nei fatti di un nuovo partito di centrodestra. Il rischio è ovviamente tutto per Fini, che però non è tipo che ama rischiare. Il ruolo di presidente della Camera gli as­sicura uno standing istituzio­nale- e un rapporto privilegia­to con il Colle, determinante in caso di crisi di governo- che non potrebbe mai avere come semplice leader del Fli. Non so­lo, ma il Fli è un pianetino ap­pena formatosi, dove si molti­plicano le scosse di assesta­mento e le tempeste. Al di là delle costanti voci di addii e passaggi al Pdl, la spaccatura interna è sempre più eviden­te. Si racconta di una fortissi­ma irritazione tra i futurist-fi­niani per le parole del deputa­to Fli Giuseppe Consolo, che ha assicurato preventivamen­te il suo appoggio ai cinque punti di Berlusconi. Ci sareb­bero state pressioni per fargli correggere il tiro specificando che quella è una sua persona­le posizione, e non quella del Fli. Un finiano invece di quelli anti-Cav racconta anonima­mente di prepararsi ad «uscire dall’aula nel momento in cui Berlusconi prenderà la paro­la », il 29 settembre. Ma il prota­gonismo troppo polemico di Bocchino & Co sta creando problemi. Il sottosegretario fi­niano Roberto Menia tira un dardo all’indirizzo di Bocchi­no dicendo che «sono finiano, ma non obbedisco a Bocchi­no ». Il senatore Menardi con­fessa un «malessere», perché «ci sono colleghi che parlano a sproposito», e anche il capo­gruppo al Senato Viespoli du­bita che la tattica mediatica ­orchestrata dalla banda Boc­chino, Granata e Farefuturo ­sia stata giusta. Un settembre «nero» per Gianfranco Fini.