lunedì 24 ottobre 2011

Tutti gli scandali della Sanitaservice, la nuova creatura di Vendola


Inserito da Riccardo Ghezzi


Strano concetto di lotta alla precarietà, quello del presidente della regione Puglia Nichi Vendola. Ora sappiamo cosa si nasconde dietro le promesse di “stabilizzazioni” ed “internalizzazioni” sbandierate in campagna elettorale: fumo negli occhi, che però costa caro alle casse della Regione. Bocciate dalla Corte Costituzionale le leggi spot che aggiravano grossolanamente l’obbligatorietà di pubblici concorsi per pubbliche assunzioni, come già avevamo scritto qui ; sostituite aziende private con aziende altrettanto private, pur se a capitale pubblico, che in realtà non agevolano i precari in quanto i dipendenti di cooperative di servizio convenzionate con la Regione sono già garantiti dalla “clausola sociale”, cosa resta? Non rimane altro che constatare come il meccanismo vendoliano altro non faccia che agevolare gestioni partitiche. Ecco il reale obiettivo.
L’esempio della Sanitaservice, società in house della Asl, è lampante: della Sanitaservice di Brindisi avevamo già trattato in questo articolo, ma le assunzioni di raccomandati e figli di sindacalisti rappresentano solo una goccia nell’oceano Sanitaservice, vero e proprio Bengodi vendoliano.
A Foggia la società gestisce anche il Servizio 118, ma è priva di ambulanze: le affitta dagli affidatari, suoi predecessori. In compenso l’Amministratore delegato, Antonio Di Biase, è dotato di un appariscente Suv da 43 mila euro. I presunti e sbandierati risparmi che dovrebbero derivare dall’utilizzo di personale e strutture della Asl sottratti ad altri compiti (con spese e disagi conseguenti), sono vanificati dai costi non indifferenti della struttura, compreso il lauto compenso di 97.000 euro elargito al sopra citato Antonio Di Biase. Il quale è stato persino denunciato dalla Digos per aver capeggiato una spedizione squadrista all’interno della redazione del quotidiano “L’Attacco”, picchiando il giornalista Michele Iula che aveva pubblicato articoli ritenuti sgraditi proprio sul tema Sanitaservice. Solo qualche giornale locale ne ha parlato. E ai primi di settembre, ancora la Digos ha disposto il sequestro dell’auto BMW modello X3 di proprietà della Sanitaservice ma usata esclusivamente dallo stesso Di Biase. “Peculato d’uso continuato” è il reato a carico del manager ipotizzato dalla Digos, diretta dal vice questore aggiunto Antonio Caricato. In effetti le indagini avrebbero accertato l’utilizzo del veicolo principalmente per impieghi strettamente personali, “estranei a finalità di servizio”, come matrimoni, viaggi di piacere, shopping. Anche fuori dalla provincia di Foggia. Persino a Milano. In questi viaggi, Di Biase avrebbe portato con sé “familiari estranei alla Sanitaservice”.
Non ci sono solo denunce, pure arresti: è il caso di Vincenzo Nuzziello, imprenditore nonché fratello di una consigliera regionale candidatasi nella lista personale di Vendola, Anna Nuzziello. Finito in manette perché presunto promotore-beneficiario di acquisti di forniture troppo costose per la Asl. Un vizio, a Foggia: il precedente direttore generale della Asl locale, Donato Troiano, nel 2009 è stato condannato in primo grado ad 1 anno e 2 mesi di reclusione per tentato abuso d’ufficio. Pare che, assieme a due funzionari, abbia falsato la graduatoria di un concorso per logopedisti per favorire due candidate, tra cui la moglie dell’onorevole Michele Bordo, ultimo segretario regionale dei Ds ed attuale deputato Pd. Non c’è però ancora una condanna definitiva.
Il manager della Sanitaservice di Bari, invece, Massimo Novelli, è stato trovato morto lo scorso 25 agosto in circostanze poco chiare, tant’è che la Procura di Taranto ha addirittura disposto la riesumazione della salma per fare chiarezza. Il corpo è stato trovato nei pressi di Martina Franca, lontano sia da casa sua (il Salento), sia dal luogo di lavoro (Bari). Appena quarantenne, padre di due gemelli, si sarebbe suicidato ingerendo acido cloridricico, perché “era terrorizzato”. Ma da cosa? Non si sa.
Insomma, un eterno “magna magna” in cui l’intero apparato del centro-sinistra pugliese sguazza. E se i giornalisti ne parlano, vengono picchiati. Come Michele Iula.
Niente male per la Sanitaservice, una società che nell’ultima campagna elettorale s’è fatta notare per aver organizzato un pranzo con i candidati Vendola ed Arcangelo Sannicandro, quest’ultimo ex capogruppo alla Regione di Rifondazione Comunista prima e di Sinistra e Libertà poi, attualmente presidente della Commissione Bilancio. Una cena gratuita? Nient’affatto, il costo (30 euro a capo) è stato scaricato direttamente sulle già misere buste paga dei poveri dipendenti.

"Grazie a Dio non sono comunista"

domenica 23 ottobre 2011

Approda alla Camera la legge “anti-burqa”, ma per la sinistra è un attentato alla libertà




Inserito da Qelsi

Il ddl anti-burqa sarà all’esame dell’Aula della Camera la prossima settimana. “Sono molto contenta per questa decisione presa oggi dalla conferenza dei capigruppo di Montecitorio – commenta la parlamentare Pdl, Souad Sbai – perche’ l’Italia si metterà così al passo con il resto d’Europa dove e’ già vietato”. “Pensare a una donna con il burqa – aggiunge la Sbai – significa non pensare a una donna. E’ ora di smetterla con la segregazione della donna
musulmana”.
E’ fin troppo evidente che le dichiarazioni di Livia Turco sul disegno di legge contro il burqa, contraddistinte da irritante ipocrisia, non fossero sincere ma dettate dalla solita strategia di opporsi sempre alle proposte della maggioranza, anche quando queste suonano, sensate, ragionevoli, condivisibili.
Secondo Livia Turco, il voto contro il burqa sarebbe un attentato alla libertà di scelta della donna islamica. Non poteva pronunciare una frase più egoistica di questa. E’ la solita meschina, ignorante e vergognosa presunzione di chi ha avuto il privilegio di non aver mai sperimentato la condizione di schiava nel suo paese grazie a quel provvidenziale corso della storia italiana che, dal dopoguerra, ha concesso alle donne libertà, democrazia, emancipazione. Forse la sig.ra Turco confonde la libertà di scelta con la libertà di essere, di sentire, di sognare, di volare e soprattutto di guardare il mondo senza quel triste abito funereo che impedisce alla donna islamica di immergersi sorridente tra la gente, per le strade, nella natura.
E’ la solita battaglia strumentale, per colpire, per abbattere, per distruggere. Ma questa volta la Livia l’ha “sparata grossa” perché nessuna donna che si dichiari progressista, libera ed emancipata potrebbe condividere la sua opinione che nasce solo dall’obbligo politico di allinearsi alle direttive di partito anzi che obbedire alla sua coscienza.
E’ possibile che un parlamentare che si occupa di questioni sociali non abbia la sensibilità di immedesimarsi nella condizione delle altre donne siano esse islamiche , occidentali , asiatiche e via dicendo?
Dov’è quel sentimento di empatia che Jeremy Rifkin tanto decanta nel suo libro “La Civiltà dell’Empatia” come mezzo di unione e di salvezza delle società moderne? Certo che all’onorevole questo sentimento non sembra neanche sfiorarla tanto forte è in lei il sentimento opposto di ricacciare le donne islamiche, in occidente, sempre più nell’inferno del loro silenzio, della loro emarginazione, della loro ancora persistente schiavitù.
Cara Livia se fossi un giudice, ti condannerei a vivere tra i talebani almeno per un anno intero, avvolta naturalmente, nel lungo abito nero che ti copre il viso e sotto un sole cocente di 40 gradi all’ombra. Forse allora, distrutta nell’anima, implorerai l’occidente di venirti a salvare. E come potrebbe l’Italia salvarti se tu con il tuo giudizio avrai nel frattempo diffuso in ogni angolo del paese questo costume barbaro sì da non poter più tornare indietro?
Pensaci cara Livia, e vivi sonni tranquilli perché fortunatamente ci sono le donne del PDL a salvarti in primis l’onorevole Souad Sbai che tanto sta lavorando per far comprendere alle donne ostinate come te, che la libertà di scelta deve essere per amare la vita in pieno sole e non tra le sbarre di una stoffa grigliata.

venerdì 21 ottobre 2011

Dove finisce il buon senso incominciano loro


A Napoli vent’anni di agguati finiti nel vuoto.

Ecco la procura del fango che cerca visibilità
di Stefano Zurlo

I pm partenopei da tempo cercano visibilità mediatica con indagini "d’alto livello". Ma alla fine mancano sempre le prove e frana tutto. Come nell’inchiesta Lavitola. Già 492 cause nel 2009 per ingiusta detenzione: un record nazionale


L’ultimo mezzo flop è l’inchiesta sul duo Tarantini-Lavitola, con Berlusconi nella parte del pollo da spennare. Un’indagine strattonata da tutte le parti, ammaccata, rovesciata dal tribunale del Riesame, quindi tolta ai pm di Napoli per il solito problemino della competenza. E ora proseguita senza entusiasmo dalla magistratura di Bari che annuncia: l’ordine di custodia contro Valter Lavitola ha i giorni contati. La procura di Napoli ha ormai una visibilità altissima, ha superato perfino quella di rito ambrosiano, ma i risultati non sono all’altezza. Inchieste clamorose che si sgonfiano, ritardi intollerabili nella pur elastica Italia, scarcerazioni di boss per un cavillo.
I pm napoletani, sia chiaro, sono in prima linea e pure oltre nel combattere tutte le forme possibili di criminalità. Un quinto dei bersagli intercettati nella penisola viene spiato dal Centro direzionale del capoluogo campano, con una spesa - nel 2010 - di 11,6 milioni di euro. Siamo a livelli record. Ma fra errori, lungaggini e scivoloni una parte del lavoro evapora nel nulla. Capita che un boss di prima grandezza, Vincenzo Di Lauro, uno dei primi cinquecento ricercati d’Italia insieme al padre Paolo, venga infine catturato. Un’operazione vanificata da un incredibile passo falso della procura: nell’ordinanza di arresto mancano le motivazioni. Il paragrafo, quindici righe su otto pagine, è saltato e gli avvocati difensori lo fanno notare. Risultato: il giovane viene scarcerato.
I numeri degli errori giudiziari sono impressionanti. E non hanno riscontri in Italia, proprio come quelli delle intercettazioni. Solo nel 2007 a Napoli sono stati iscritti 335 procedimenti per ingiusta detenzione, per un totale (nel 2009) di 492 cause. Un’enormità. Per raggiungere una massa analoga bisogna sommare tutti i processi in corso a Roma, Milano, Torino, Palermo, Firenze, Genova, Catania, Bologna, Potenza, Cagliari e Trento. Napoli combina da sola gli errori di mezza Italia. E la memoria corre al peccato originale, il caso simbolo di una giustizia che non c’è: le manette a Enzo Tortora, le farneticanti accuse di contiguità alla camorra, la condanna in primo grado, prima della tardiva assoluzione.
La vicenda Tortora fa purtroppo parte della storia italiana, ma tanti altri nomi sono rotolati nella polvere del disprezzo per essere poi riabilitati dopo lunghissime odissee. Antonio Gava, il potente ex ministro dell’Interno, viene assolto nel 2000 dall’accusa infamante di concorso esterno in associazione camorristica. Per ridargli l’onore ci sono voluti 5 anni e 4 mesi, riempiti da 268 udienze.
Capita, capita spesso a non solo a Napoli, che la giustizia rimedi quando ormai è troppo tardi e i giochi sono fatti. Dalla politica allo spettacolo: Gioia Scola, bellissima attrice alla ricerca del film di successo, viene catturata nel 1995 per traffico internazionale di stupefacenti. La carriera s’infrange contro i titoloni dei giornali. La tengono 73 giorni in cella e 78 agli arresti domiciliari; poi si scopre che Napoli non è competente. Le carte traslocano a Roma e nella capitale Gioia Scola è assolta dodici anni dodici anni più tardi, nel 2007. Ormai è troppo tardi per tornare davanti alla telecamere.
Capita. Anche il processo per la Global service, altro capitolo apparentemente glorioso dell’investigazione napoletana, si conclude con un disastro. Si tratta di un’indagine importantissima, che ha portato alla decapitazione della giunta di Rosa Russo Iervolino. Una vicenda che s’intreccia con il suicidio di Giorgio Nugnes, impiccatosi in casa. Il tribunale emette una raffica di assoluzioni. Per la Procura è una Caporetto. E finisce anche sul binario morto dell’archiviazione l’indagine che aveva messo in fibrillazione il mondo della politica: quella delle giovani attricette raccomandate dal presidente del Consiglio. Un altro flop, autenticato dai giudici di Roma. È Napoli: grandi titoli all’inizio, ma titoli di coda da dimenticare.

martedì 18 ottobre 2011

In Molise si dissolve il Pd e la sinistra perde 20.000 voti




Inserito da Riccardo Ghezzi 18 OTT. 2011
Nell’indifferenza generale, in Molise si dissolve il Pd e la sinistra perde 20.000 voti
Non lo dice nessuno, allora lo diciamo noi. Le elezioni regionali molisane del 16-17 ottobre hanno emesso un verdetto forse più importante degli altri: il crollo del Pd. Si parla di elezioni regionali, le quali hanno una valenza e risvolti in ambito nazionale molto relativi, ma il dato è curioso soprattutto perché si tratta del soggetto politico che da tutti i sondaggi del momento è additato come nuovo primo partito d’Italia.
Il Pd di Pier Luigi Bersani, quello che un giorno sì e l’altro pure tira fuori la frase “Berlusconi si deve dimettere”, in Molise è invece sceso sotto il 10%, doppiato dal PdL e quasi raggiunto da Idv.
Un dato ignorato dai media, almeno per il momento, ed anche piuttosto allarmante, considerando che arriva nell’ambito di una sconfitta piuttosto netta del centro-sinistra. Una sconfitta destinata a spegnere entusiasmi post-referendum e post-amministrative, e che probabilmente regalerà un po’ di serenità alla coalizione di centro-destra.
La vittoria di Michele Iorio, nonostante le due legislature precedenti, non era affatto scontata. Anche perché il centro-sinistra, candidando un uomo di destra come Paolo Frattura, sperava nel voto disgiunto. Mossa che stava per costare cara al centro-destra, visto che Iorio ha sì vinto, ma con uno scarto di pochissimi voti: poco più di 1.000, tradotti in una percentuale pari allo 0.79%, ossia 46,94% Iorio e 46,15% Frattura.
Scampato il pericolo, reale, di una sconfitta di Iorio, i dati riguardanti i voti alle liste sono di gran lunga favorevoli al centro-destra: 56,37% il totale della coalizione a sostegno di Iorio, solo 40,49% per il centro-sinistra.
Un sonoro distacco di ben 16 punti. Cinque anni fa era stato solo di 5 punti: 52,93% il centro destra, 47,06% il centro-sinistra.
In senso assoluto, l’astensionismo è stato molto forte: solo il 59,79% degli aventi diritto si è recato alle urne, a fronte del 65,09% della precedente tornata. Il centro-destra ha perso 4.000 voti, il centro-sinistra ne ha persi più di 20.000: dai poco più di 93.000 di cinque anni fa ai 72.803 di oggi.
Una batosta. Una debacle evidente per Bersani e compagnia.
Forse un segnale che non bisogna credere ai sondaggi. Vero che la destra non sta bene, vero che l’astensionismo sta aumentando, ma il centro-sinistra certo non piace agli elettori.
Come già detto, il dato più importante è quello del Pd: il primo partito di opposizione ottiene la ridicola percentuale di 9,86%, 17.735 voti assoluti. Nelle precedenti elezioni i Ds da soli avevano ottenuto 21.767 voti, pari ad una percentuale del 10,90%. Meglio ancora era andata alla Margherita: 12,42%, voti totali 24.810. Dunque, Ds e Margherita sommati avevano ottenuto 46.577 voti. Cinque anni dopo, il Pd ha ben 28.842 voti in meno: quasi 30.000. In pratica, ha perso quasi 2/3 degli elettori.
Tiene invece Idv, pur perdendo 2.000 voti.
Se queste elezioni molisane hanno fornito segnali di crisi, sono tutti per il centro-sinistra. In un momento oltretutto difficile, dopo tre giorni consecutivi di figuracce in Aula e nelle piazze.
Ed ora, chi lo dice a Bersani?
Sappiamo già la risposta: “Uè ragassi, mo siam passi? non siamo qui a pettinare bambole, Berlusconi si deve dimettere”.
Ripetilo pure, caro Pier Luigi. Intanto in Molise il tuo partito è quasi sparito.

Piccola postilla. Da oggi il Molise ha un nuovo consigliere regionale, con relativo stipendio: Cristiano Di Pietro, figlio d’arte, diplomatosi alla veneranda età di 22 anni (!) come privatista presso l’istituto tecnico di Pratola Peligna. Voto 39 su 60, esame sostenuto a porte chiuse per inspiegabili motivi di sicurezza. Un nuovo “Trota” insomma. Se lo ricorderanno a sinistra quando faranno manifesti per difendere laureati precari o gruppi su fb per prendere in giro Renzo Bossi?

sabato 15 ottobre 2011

Le lettere, mai pubblicate, in cui Craxi diceva: “Fini è un compagno”




Inserito da Qelsi 14 OTT. 2011

Pubblichiamo tre lettere che Bettino Craxi ha inviato anche tramite fax alle redazioni di alcuni giornali italiani durante il suo esilio ad Hammamet, ma che non sono mai state pubblicate.

Nonostante siano tre lettere datate 1998, si può dire che l’ex segretario del Psi, scomparso da latitante il 19 gennaio 2000 dopo essere stato travolto dall’inchiesta Tangentopoli, abbia previsto alla perfezione l’attuale scenario politico, individuando con puntualità clamorosa la personalità di Gianfranco Fini.

Nella prima lettera lo definisce addirittura “compagno”, sia nel titolo della missiva sia nell’incipit che recita testualmente “Fini è un compagno come si deve”. L’ultima lettera che pubblichiamo è invece una lettera che Giuliano Amato, futuro premier, ha inviato a Bettino Craxi proprio prima che si dimettesse da segretario del partito. Anch’essa davvero interessante nei contenuti, ma mai pubblicata sui giornali. Fortunatamente i quattro documenti si possono trovare sulla rete, ad esempio li ha pubblicati il sito perdentipuntocom (perdentipuntocom.blogspot.com) da cui abbiamo attinto. Buona lettura.



Il compagno Fini (lettera mai pubblicata dai giornali, anche se a loro inviata tramite fax, come molte altre).
di Bettino Craxi

Fini è un compagno come si deve. Viene dall’estrema destra ma marcia, anzi corre, nella direzione giusta. Ha capito innanzitutto che il vero problema è Berlusconi. Via lui, tante cose si chiariranno anche tra di noi. Lui con il suo ruolo, noi con il nostro. In fondo siamo noi i veri perseguitati della Prima Repubblica.
Berlusconi in quegli anni si è solo fatto grosso. Fini, dobbiamo riconoscerlo, non perde un colpo. I magistrati infieriscono su Berlusconi? Lui non lascia cadere l’occasione e fa loro l’occhiolino. Berlusconi punta i piedi sulle non-riforme? Il compagno Fini si alza a difendere l’interesse della Nazione. Berlusconi distribuisce «Il libro nero sul comunismo», Fini provvede a seppellire il comunismo passato, presente e futuro.
Berlusconi allora si impressiona e corre ad abbracciarlo. Fini si guarda intorno e sembra che dica «ma questo che vuole?». Scoppia la polemica. Sono tanti che si preoccupano. E lui subito «Non preoccupatevi, l’aggiusto in un minuto».
Un colpo al cerchio e un colpo alla botte e quando verrà il momento un paio di telefonate, una a D’Alema e una a Caselli, e un calcio nel culo. Sarà una vera finezza.
Hammamet, marzo 1998

II lettera di Bettino Craxi

C’è una linea di Fini nei confronti di Berlusconi e di Forza Italia che è ormai assolutamente evidente. È figlia della furbizia e dell’ingratitudine prima ancora che dell’ambizione. La parola d’ordine è: «prendere le distanze».
Coerentemente egli lo fa in ogni occasione che si presenta. Il giorno dopo accetta di aggiustare le cose ma intanto ha lasciato il segno. Che cosa c’è al fondo di questa linea di condotta? Interessi rivali? No di certo. Fini non può aspirare ad alte cariche dello Stato né ad assumere la guida della coalizione di opposizione. Bisogno di identità e di autonomia di Alleanza Nazionale? Una cosa senza senso almeno nei confronti di Forza Italia, che ha compiuto a suo tempo, con tutti gli oneri relativi, e ha continuato a garantire sulla parola una operazione di sdoganamento interno ed internazionale in piena regola di una forza politica che, benché non più ghettizzata, permaneva ancora del tutto isolata. Insofferenze personali? La politica è fatta da esseri umani con i loro pregi, i loro difetti, le loro passioni e quindi anche di amori e di odi. Non parrebbe il caso visti i baci, gli abbracci e le effusioni che anche le immagini televisive hanno immortalato, anche se non è da escludere.
E allora? Prendere le distanze, nel modo come viene fatto, significa, nella realtà della politica, opportunismo bello e buono per non usare il parolone del tradimento. Berlusconi è oggetto di una aggressione politico-giudiziaria che potrebbe risultare devastante per lui, la sua famiglia, la sua azienda, il suo movimento politico. Bisognerebbe entrare in campo con grande decisione contro questa specie di «giustizia politica» che lo sta perseguitando. Bisognerebbe fare muro compatto contro quanti, nel sistema politico, blandiscono e assecondano l’arma giudiziaria.
Invece non si fa, qualche volta si fa il contrario, spesso si finge di non vedere, anche se, su questo fronte, non tutta Alleanza Nazionale pare perfettamente allineata con il suo leader. La linea ufficiale però sembra chiara. Non ci si scontra con i poteri forti, con il potere più forte degli
altri, e con quanti lo sostengono e si fanno sostenere. Se arriva una tempesta, noi mettiamoci al riparo anzi vediamo di approfittarne. La parola d’ordine è quindi: «prendere le distanze».
Hammamet, 1998

III lettera

«Ecco che, ancora, in questo drammatico panorama parrebbe ergersi una figura diversa, classica oserei dire, lineare, volutamente votata all’ordine, al rispetto delle regole (di quali però?), alla metabolizzazione frettolosa e
acritica delle coscienze, al ripristino di uno Stato etico che, comunque, si muove nella medesima altrui direzione; quella della restaurazione e dello stigma notarile della fine della democrazia. E costui risponde al nome di Fini.
Un nome che già nel suono nulla dice, nulla suggerisce (a parte lo spot sui tortellini), e che si può sussurrare in fretta. E dimenticare in fretta. Un nome senza echi, nella storia di un partito che la storia dovrebbe aver definitivamente segnato. Un personaggio che ammannisce apparente sicurezza, uno di quei nipotini di Almirante che, come tali, mai potranno essere legittimati a gestire una democrazia vera (…) Un individuo, questo Fini, che pare inamidato nella sua immobilità, anacronistico «residuo» di altri «residuati» la cui vacuità politica, sostanziale, è significata dal resoconto degli atti parlamentari che la dicono lunga sulla sua «vis» di uomo politico e di gran pensatore. Prendiamo in esame il decennio ’83-’92. Cosa ne vien fuori? La maggior parte, la quasi totalità anzi, dei suoi interventi ruota attorno ad un punto. L’osservanza dell’art. 77 della nostra Costituzione repubblicana(…) (Craxi elenca le sedute a partire dal 21 settembre 1983, e i temi su cui Fini è intervenuto)(…) Ma il deputato Fini raggiunge l’acme, riesce (se mi è permesso) a godere intensamente, ad avere il suo sacrosanto orgasmo quando, nella seduta del 12-2-’85, gli tocca di rievocare quelle giornate radiose in cui gli Italiani mostrarono il loro vero, profondo amore per il regime (naturalmente quello fascista!) facendo olocausto della loro più personale ed intima memoria. Dice difatti (p. 24097 e sg.): «La destra prima di chiedere i sacrifici… ha preferito dare l’esempio… Quando fu chiesto agli italiani dal capo di governo di allora, Mussolini, di dare il proprio oro alla patria. Tutto ciò farà sorridere, però quell’oro gli italiani lo hanno dato, quel sacrificio lo hanno fatto sia cittadini di umile condizione sia cittadini che erano di ben altro tenore sociale». Le parole del deputato Fini non abbisognano di commento.
Egli riesce a «pensare», a salir di tono, solo quando parla di «Mussolini» e degli italiani «di ben altro tenore sociale». E lo fa in un’aula parlamentare di quella Repubblica nata dalla resistenza e dall’antifascismo.
E questi è il medesimo Fini che, con cravatta e in doppiopetto, oggi si presenta agli italiani come faccia del «nuovo» e come candidato a guidare la destra, la nuova-vecchia destra, e magari un futuro governo. Un uomo della seconda Republica che, guarda caso, ha avuto i piedi ben piantati nella prima e il cuore, o la mente, radicati profondamente nel passato (…). Roba da sbellicarsi dalle risate… se non fosse che, data la drammacità dei momenti che stiamo vivendo, il dolore e il pianto avrebbero da sgorgare spontanei, e impetuosi. In tutta la sua vita parlamentare c’è un vuoto assoluto, anzi «il» vuoto assoluto, l’assenza di un’idea capace di contribuire al progresso degli uomini e delle istituzioni e di un’azione politica che tale progresso renda possibile, e visibile. E a costui, che da tempo si sta esercitando a guidare la destra e forse il nostro infelice Paese, gli italiani stanno forse correndo ad affidare il proprio destino e il futuro delle generazioni a venire! Chi avrebbe potuto immaginarlo? (…) Se la prima volta ci hanno tolto perfino le «fedi», stavolta che cosa si apprestano a toglierci? Ed oltre, cosa c’è? (…) Un seme di niente non può che darci un niente (…). Ma intanto un popolo di creduloni aspetta e spera, anche perché in una notte senza più luci o punti di riferimento visibili ci si riesce ad accontentare anche della luce più fievole della più fievole lucciola (…) Stiamo rischiando di sbattere col naso contro sventure inimmaginabili (…). Ci pensino, gli Italiani, finché si è in tempo.
E auguri.

Infine una lettera inviata da Amato, allora neo Capo del Governo a Craxi, già colpito da avviso di garanzia, Silvano Larini sta rivelando al Pool manipulite dei sette milioni di dollari versati su un conto Protezione da Licio Gelli che sono riferibili al Psi. Poco dopo Craxi si dimetterà da segretario, Martelli idem, e Amato cercherà di far approvare un decreto denominato SALVA LADRI, che poi sarà costretto a ritirare in fretta, ma che tutti avrebbero approvato se non avessero rischiato la faccia.

“Caro Segretario, prendo a calci i primi mattoni di un muro di silenzio che non vorrei calasse fra noi. E vorrei chiederti invece di avere fiducia in quel che io sto cercando di fare.
Occorre certo che passi qualche giorno, che la situazione delle imprese, e non solo della politica, appaia (come del resto già è) insostenibile.
E’ inoltre realisticamente utile che la macchia d’olio si allarghi.
Neppure a quel punto credo che sarà possibile estinguere reati di codice.
Ma credo che l’estensione per essi dei patteggiamenti e delle sospensioni condizionali sia una strada percorribile. Sto conquistando su questo preziosi consensi.
E ritengo che si ottengano così procedure non massacranti, che evitano la pubblicità devastante dei dibattimenti e forniscono possibilità di uscita (…). Claudio mi pare ormai in pericolo.
Apprendo che, se ci fosse un riscontro a ciò che ha detto Larini, già sarebbe partito un avviso per concorso in bancarotta fraudolenta.
Io sono qua. E continuo ad esserti grato ed amico. Giuliano”.

Naturalmente, a quel momento, tutto era in mano agli ex Dc e ex Pci, che
confluirono in breve nel Pds.
Quel Pd che ottiene il voto anche della borghesia proletaria, che se ne
infischia di chi perde il lavoro o di quei disperati dei Cococo eccetera. Un
blocco di potere che si è spalmato, con poche eccezioni tra Pdl e Pd, che
raccoglie la gente della classe piccolo e medio borghese, insegnanti,
parastatali, gente del servizio sanitario pubblico, dipendenti pubblici vari,
che nel complesso fanno milioni di persone, cui si aggiungono i grassi borghesi delle cooperative, del piccolo commercio e dell’artigianato. Quando ci sarà lo sfascio dei conti pubblici, cui siamo destinati, questa gente si salverà comunque, ma ci saranno allora almeno un cinque milioni di incacchiati, e incacchiati grosso! Altro che contratto di Mirafiori o Secondigliano o altra roba, che nell’insieme occupa 75mila posti.

Le lettere, mai pubblicate, in cui Craxi diceva: “Fini è un compagno”




Inserito da Qelsi 14 OTT. 2011

Pubblichiamo tre lettere che Bettino Craxi ha inviato anche tramite fax alle redazioni di alcuni giornali italiani durante il suo esilio ad Hammamet, ma che non sono mai state pubblicate.

Nonostante siano tre lettere datate 1998, si può dire che l’ex segretario del Psi, scomparso da latitante il 19 gennaio 2000 dopo essere stato travolto dall’inchiesta Tangentopoli, abbia previsto alla perfezione l’attuale scenario politico, individuando con puntualità clamorosa la personalità di Gianfranco Fini.

Nella prima lettera lo definisce addirittura “compagno”, sia nel titolo della missiva sia nell’incipit che recita testualmente “Fini è un compagno come si deve”. L’ultima lettera che pubblichiamo è invece una lettera che Giuliano Amato, futuro premier, ha inviato a Bettino Craxi proprio prima che si dimettesse da segretario del partito. Anch’essa davvero interessante nei contenuti, ma mai pubblicata sui giornali. Fortunatamente i quattro documenti si possono trovare sulla rete, ad esempio li ha pubblicati il sito perdentipuntocom (perdentipuntocom.blogspot.com) da cui abbiamo attinto. Buona lettura.



Il compagno Fini (lettera mai pubblicata dai giornali, anche se a loro inviata tramite fax, come molte altre).
di Bettino Craxi

Fini è un compagno come si deve. Viene dall’estrema destra ma marcia, anzi corre, nella direzione giusta. Ha capito innanzitutto che il vero problema è Berlusconi. Via lui, tante cose si chiariranno anche tra di noi. Lui con il suo ruolo, noi con il nostro. In fondo siamo noi i veri perseguitati della Prima Repubblica.
Berlusconi in quegli anni si è solo fatto grosso. Fini, dobbiamo riconoscerlo, non perde un colpo. I magistrati infieriscono su Berlusconi? Lui non lascia cadere l’occasione e fa loro l’occhiolino. Berlusconi punta i piedi sulle non-riforme? Il compagno Fini si alza a difendere l’interesse della Nazione. Berlusconi distribuisce «Il libro nero sul comunismo», Fini provvede a seppellire il comunismo passato, presente e futuro.
Berlusconi allora si impressiona e corre ad abbracciarlo. Fini si guarda intorno e sembra che dica «ma questo che vuole?». Scoppia la polemica. Sono tanti che si preoccupano. E lui subito «Non preoccupatevi, l’aggiusto in un minuto».
Un colpo al cerchio e un colpo alla botte e quando verrà il momento un paio di telefonate, una a D’Alema e una a Caselli, e un calcio nel culo. Sarà una vera finezza.
Hammamet, marzo 1998

II lettera di Bettino Craxi

C’è una linea di Fini nei confronti di Berlusconi e di Forza Italia che è ormai assolutamente evidente. È figlia della furbizia e dell’ingratitudine prima ancora che dell’ambizione. La parola d’ordine è: «prendere le distanze».
Coerentemente egli lo fa in ogni occasione che si presenta. Il giorno dopo accetta di aggiustare le cose ma intanto ha lasciato il segno. Che cosa c’è al fondo di questa linea di condotta? Interessi rivali? No di certo. Fini non può aspirare ad alte cariche dello Stato né ad assumere la guida della coalizione di opposizione. Bisogno di identità e di autonomia di Alleanza Nazionale? Una cosa senza senso almeno nei confronti di Forza Italia, che ha compiuto a suo tempo, con tutti gli oneri relativi, e ha continuato a garantire sulla parola una operazione di sdoganamento interno ed internazionale in piena regola di una forza politica che, benché non più ghettizzata, permaneva ancora del tutto isolata. Insofferenze personali? La politica è fatta da esseri umani con i loro pregi, i loro difetti, le loro passioni e quindi anche di amori e di odi. Non parrebbe il caso visti i baci, gli abbracci e le effusioni che anche le immagini televisive hanno immortalato, anche se non è da escludere.
E allora? Prendere le distanze, nel modo come viene fatto, significa, nella realtà della politica, opportunismo bello e buono per non usare il parolone del tradimento. Berlusconi è oggetto di una aggressione politico-giudiziaria che potrebbe risultare devastante per lui, la sua famiglia, la sua azienda, il suo movimento politico. Bisognerebbe entrare in campo con grande decisione contro questa specie di «giustizia politica» che lo sta perseguitando. Bisognerebbe fare muro compatto contro quanti, nel sistema politico, blandiscono e assecondano l’arma giudiziaria.
Invece non si fa, qualche volta si fa il contrario, spesso si finge di non vedere, anche se, su questo fronte, non tutta Alleanza Nazionale pare perfettamente allineata con il suo leader. La linea ufficiale però sembra chiara. Non ci si scontra con i poteri forti, con il potere più forte degli
altri, e con quanti lo sostengono e si fanno sostenere. Se arriva una tempesta, noi mettiamoci al riparo anzi vediamo di approfittarne. La parola d’ordine è quindi: «prendere le distanze».
Hammamet, 1998

III lettera

«Ecco che, ancora, in questo drammatico panorama parrebbe ergersi una figura diversa, classica oserei dire, lineare, volutamente votata all’ordine, al rispetto delle regole (di quali però?), alla metabolizzazione frettolosa e
acritica delle coscienze, al ripristino di uno Stato etico che, comunque, si muove nella medesima altrui direzione; quella della restaurazione e dello stigma notarile della fine della democrazia. E costui risponde al nome di Fini.
Un nome che già nel suono nulla dice, nulla suggerisce (a parte lo spot sui tortellini), e che si può sussurrare in fretta. E dimenticare in fretta. Un nome senza echi, nella storia di un partito che la storia dovrebbe aver definitivamente segnato. Un personaggio che ammannisce apparente sicurezza, uno di quei nipotini di Almirante che, come tali, mai potranno essere legittimati a gestire una democrazia vera (…) Un individuo, questo Fini, che pare inamidato nella sua immobilità, anacronistico «residuo» di altri «residuati» la cui vacuità politica, sostanziale, è significata dal resoconto degli atti parlamentari che la dicono lunga sulla sua «vis» di uomo politico e di gran pensatore. Prendiamo in esame il decennio ’83-’92. Cosa ne vien fuori? La maggior parte, la quasi totalità anzi, dei suoi interventi ruota attorno ad un punto. L’osservanza dell’art. 77 della nostra Costituzione repubblicana(…) (Craxi elenca le sedute a partire dal 21 settembre 1983, e i temi su cui Fini è intervenuto)(…) Ma il deputato Fini raggiunge l’acme, riesce (se mi è permesso) a godere intensamente, ad avere il suo sacrosanto orgasmo quando, nella seduta del 12-2-’85, gli tocca di rievocare quelle giornate radiose in cui gli Italiani mostrarono il loro vero, profondo amore per il regime (naturalmente quello fascista!) facendo olocausto della loro più personale ed intima memoria. Dice difatti (p. 24097 e sg.): «La destra prima di chiedere i sacrifici… ha preferito dare l’esempio… Quando fu chiesto agli italiani dal capo di governo di allora, Mussolini, di dare il proprio oro alla patria. Tutto ciò farà sorridere, però quell’oro gli italiani lo hanno dato, quel sacrificio lo hanno fatto sia cittadini di umile condizione sia cittadini che erano di ben altro tenore sociale». Le parole del deputato Fini non abbisognano di commento.
Egli riesce a «pensare», a salir di tono, solo quando parla di «Mussolini» e degli italiani «di ben altro tenore sociale». E lo fa in un’aula parlamentare di quella Repubblica nata dalla resistenza e dall’antifascismo.
E questi è il medesimo Fini che, con cravatta e in doppiopetto, oggi si presenta agli italiani come faccia del «nuovo» e come candidato a guidare la destra, la nuova-vecchia destra, e magari un futuro governo. Un uomo della seconda Republica che, guarda caso, ha avuto i piedi ben piantati nella prima e il cuore, o la mente, radicati profondamente nel passato (…). Roba da sbellicarsi dalle risate… se non fosse che, data la drammacità dei momenti che stiamo vivendo, il dolore e il pianto avrebbero da sgorgare spontanei, e impetuosi. In tutta la sua vita parlamentare c’è un vuoto assoluto, anzi «il» vuoto assoluto, l’assenza di un’idea capace di contribuire al progresso degli uomini e delle istituzioni e di un’azione politica che tale progresso renda possibile, e visibile. E a costui, che da tempo si sta esercitando a guidare la destra e forse il nostro infelice Paese, gli italiani stanno forse correndo ad affidare il proprio destino e il futuro delle generazioni a venire! Chi avrebbe potuto immaginarlo? (…) Se la prima volta ci hanno tolto perfino le «fedi», stavolta che cosa si apprestano a toglierci? Ed oltre, cosa c’è? (…) Un seme di niente non può che darci un niente (…). Ma intanto un popolo di creduloni aspetta e spera, anche perché in una notte senza più luci o punti di riferimento visibili ci si riesce ad accontentare anche della luce più fievole della più fievole lucciola (…) Stiamo rischiando di sbattere col naso contro sventure inimmaginabili (…). Ci pensino, gli Italiani, finché si è in tempo.
E auguri.

Infine una lettera inviata da Amato, allora neo Capo del Governo a Craxi, già colpito da avviso di garanzia, Silvano Larini sta rivelando al Pool manipulite dei sette milioni di dollari versati su un conto Protezione da Licio Gelli che sono riferibili al Psi. Poco dopo Craxi si dimetterà da segretario, Martelli idem, e Amato cercherà di far approvare un decreto denominato SALVA LADRI, che poi sarà costretto a ritirare in fretta, ma che tutti avrebbero approvato se non avessero rischiato la faccia.

“Caro Segretario, prendo a calci i primi mattoni di un muro di silenzio che non vorrei calasse fra noi. E vorrei chiederti invece di avere fiducia in quel che io sto cercando di fare.
Occorre certo che passi qualche giorno, che la situazione delle imprese, e non solo della politica, appaia (come del resto già è) insostenibile.
E’ inoltre realisticamente utile che la macchia d’olio si allarghi.
Neppure a quel punto credo che sarà possibile estinguere reati di codice.
Ma credo che l’estensione per essi dei patteggiamenti e delle sospensioni condizionali sia una strada percorribile. Sto conquistando su questo preziosi consensi.
E ritengo che si ottengano così procedure non massacranti, che evitano la pubblicità devastante dei dibattimenti e forniscono possibilità di uscita (…). Claudio mi pare ormai in pericolo.
Apprendo che, se ci fosse un riscontro a ciò che ha detto Larini, già sarebbe partito un avviso per concorso in bancarotta fraudolenta.
Io sono qua. E continuo ad esserti grato ed amico. Giuliano”.

Naturalmente, a quel momento, tutto era in mano agli ex Dc e ex Pci, che
confluirono in breve nel Pds.
Quel Pd che ottiene il voto anche della borghesia proletaria, che se ne
infischia di chi perde il lavoro o di quei disperati dei Cococo eccetera. Un
blocco di potere che si è spalmato, con poche eccezioni tra Pdl e Pd, che
raccoglie la gente della classe piccolo e medio borghese, insegnanti,
parastatali, gente del servizio sanitario pubblico, dipendenti pubblici vari,
che nel complesso fanno milioni di persone, cui si aggiungono i grassi borghesi delle cooperative, del piccolo commercio e dell’artigianato. Quando ci sarà lo sfascio dei conti pubblici, cui siamo destinati, questa gente si salverà comunque, ma ci saranno allora almeno un cinque milioni di incacchiati, e incacchiati grosso! Altro che contratto di Mirafiori o Secondigliano o altra roba, che nell’insieme occupa 75mila posti.

In Iran la prossima Chernobyl


di Mattia Bernardo Bagnoli*

La centrale nucleare di Bushehr, il primo sito atomico dello Stato iraniano, è strutturalmente insicuro e sarà probabilmente causa «di un tragico disastro per l'umanità». Il motivo è semplice. Il reattore - acceso un mese fa dopo un periodo di costruzione lungo 35 anni - sarebbe infatti stato messo assieme da «tecnici di seconda classe», che hanno assemblato tecnologie tedesche e russe provenienti da generazioni diverse. Il risultato è una specie di Frankenstein nucleare, piazzato oltre tutto in un'area sismica tra le più attive al mondo. È quanto si legge in un documento scritto, a quanto pare, da un esperto iraniano preoccupato per lo status quo del progetto e finito poi nelle mani del Times di Londra. Vi è «un'alta probabilità» che Bushehr sia la prossima Chernobyl o Fukushima, scrive il quotidiano britannico citando il rapporto - passato da una fonte definita come «affidabile» - attribuito al dipartimento legale dell'Organizzazione per l'Energia Atomica iraniana.
«L'autenticità del documento - scrive il Times - non può essere verificata ma gli esperti non vedono nessuna ragione per dubitare». I lavori a Bushehr iniziarono infatti nel 1975 quando lo Shah affidò la commessa alla tedesca Kraftwerk Union. Che, però, si ritirò dopo la rivoluzione islamica del 1979. E i reattori, a quel punto, erano lontani dall'essere ultimati. Oltre che non finiti i "moncherini" tedeschi subirono pesanti danni durante la guerra con l'Iraq. Il documento dice che le gabbie di contenimento in acciaio vennero perforate da 1.700 fori di proiettile durante i bombardamenti con il risultato di lasciar entrare centinaia di tonnellate di acqua piovana. Il progetto venne riavviato negli anni Novanta, questa volta usando tecnici russi - che non avevano costruito reattori sin dal collasso dell'Unione Sovietica. I russi chiesero di ricominciare daccapo ma gli iraniani, che avevano a quel punto già speso un miliardo di dollari, imposero ai tecnici ci proseguire il lavoro svolto dai tedeschi. E così ebbe inizio "l'innesto".
L'operazione - mai tentata prima - ha richiesto infatti di adattare una struttura costruita per ospitare un raettore verticale - quello tedesco - in modo che potesse accomodare quello russo - orizzontale. Molte delle 80mila parti lasciate in ereditò dai tecnici tedeschi erano a quel punto obsolete, danneggiate o senza i necessari "libretti d'istruzione" d'accompagnamento.
«L'equipaggiamento russo - si legge nel documento - è disegnato in base a standard meno stringenti ed è usato in un contesto dove viene esposto a sollecitazioni inappropriate». Ma non è tutto. Molto del lavoro condotto a Bushehr dai russi era «al di fuori delle loro competenze» tanto che i tecnici trattarono il progetto come «una vacanza». Non è dunque un caso che i vicini dell'Iran, Kuwait in testa, siano preoccupati per l'effettiva sicurezza del sito. «Ci dicono "fidatevi"», ha dichiarato Sami Alfaraj, capo del Centro per gli Studi Strategici del Kuwait e consulente del governo. «Ma non esiste il concetto di fiducia in campo nucleare. L'Iran sta giocando alla roulette russa non solo con noi ma con il resto del mondo».

venerdì 7 ottobre 2011

Il "patriota" Della Valle fa le scarpe in Romania



di Paolo Bracalini

L'imprenditore che fustiga il Palazzo fa produrre le Hogan all’Est. Però l’azienda non lo dice


Le famose scarpe italiane di un campione del made in Italy, l’ultimo «calzolaio» di lusso, Diego Della Valle (nella foto), difensore delle imprese italiane dai disastri del governo. Le sue Hogan, quelle che porta pure Berlusconi, nella versione nera, sportive ma di classe, come da sapiente artigianato italiano. Però, spesso, «made in Romania». È quel che trovano, marchiato dietro la linguetta di quella scarpa da 220 euro (circa lo stipendio medio di un lavoratore in Romania, dati di Confindustria), diversi clienti. In effetti succede, come ci spiega al telefono un dipendente di una boutique della Tod’s Spa, gruppo di Della Valle, che le Hogan sono fatte in Italia ma anche in Romania.
In quale stabilimento romeno? Nel bilancio del gruppo non se ne parla. La semestrale 2011 spiega che «la produzione delle calzature e della pelletteria è affidata agli stabilimenti interni di proprietà del Gruppo, con il parziale ricorso a laboratori esterni specializzati, tutti dislocati in aree nelle quali storicamente è forte la tradizione nella rispettiva produzione calzaturiera e pellettiera». Ma si elencano solo quelli italiani, due a Comunanza (Ap), uno a Sant’Elpidio a Mare (Fm), un altro a Tolentino (Mc), due a Bagno a Ripoli (Fi). Quelli romeni saranno tra «gli esterni specializzati» dove «storicamente è forte» la lavorazione delle pelli, ma non se ne fa cenno.

Un altro rivenditore ufficiale romano ci dà altre informazioni: «Della Valle ha comprato una fabbrica in Romania, ma sono fatte come quelle fatte in Italia. Quelle da bambino le fanno in Cina addirittura, sempre lui ha preso uno stabilimento in Cina. Ma usano sempre personale italiano». Cioè la Tod’s delocalizza in Romania e Cina e ci manda gli operai italiani? Sarebbe un po’ strano... «Il marchio made in Italy è decisivo, altrimenti non si spiegherebbe perché tutti ce lo imitino» ha spiegato il grande imprenditore marchigiano qualche mese fa, in un convegno ad Ancona. Le sue aziende, riporta anche Wikipedia, «sono il simbolo del made in Italy».
Perciò si spiega la reazione di chi compra Hogan e si trova «made in Romania», o «made in China».

Nella pagina ufficiale Facebook di Hogan, si è aperta una discussione, sotto questo titolo: «Scarpe made in Romania». Lamenta il signor Salvatore C.: «Caro Hogan ho acquistato 1 paio di Hogan interactive color argento nel negozio Hogan a Napoli. Mi sono accorto che dentro c’è scritto made in Romania, il responsabile mi ha comunicato che Hogan cioè Della Valle hanno la fabbrica anche fuori Italia. Allora mi domando perché le dobbiamo pagare 240 euro se la manodopera è di pochi euro e poi non è un prodotto made in Italy?». L’azienda gli ha risposto di rivolgersi al Servizio clienti, «sarà loro premura risponderti quanto prima». Anche la signora Annamaria S. si stupisce: «Anche io ieri ho comprato un paio di Hogan interactive numero 35 junior, arrivo a casa e trovo made in Romania!».

E allora? Il finanziamento del restauro del Colosseo, la poetica del calzolaio di paese (le foto in bianco e nero del nonno Filippo, artigiano e fondatore), i suoi prodotti «tutti sinonimi del lusso italiano»? Che volete, business is business. E su questo Della Valle va lasciato stare. Il primo semestre 2011 ha segnato un +16,4% di ricavi rispetto all’anno prima. Magari risparmiando qua e là, con l’aiuto dei romeni.

giovedì 6 ottobre 2011

Che fine ha fatto la sinistra che osannava Obama e Zapatero?



di Riccardo Ghezzi

Qualcuno ricorda i proclami vittoriosi e le esultanze della sinistra italiana quando Obama è diventato presidente degli Usa? E le scene di giubilo per Zapatero premier in Spagna? A sinistra nessuno ricorda più nulla. Ma noi, fortunatamente, abbiamo la memoria lunga. Ci ricordiamo i “Yes, we can” copiati da Walter Veltroni in Italia, i cartelli “Zapatero santo subito” apparsi sui carri colorati dei Gay Pride di Roma 2005, il documentario (se così si può chiamare) “Viva Zapatero” che nelle sale cinematografiche è diventato uno status symbol del perfetto radical chic: guai a non vederlo.
Cosa è rimasto di tutto questo? Assolutamente niente. La sinistra italiana, bastonata alle politiche del 2008, si è convinta di aver vinto le elezioni quando Obama è stato eletto presidente degli Usa, “il primo nero della storia” a diventare l’uomo più potente del mondo. Peccato che il Partito democratico statunitense abbia ben poco a che vedere con il Pd nostrano, ed anche l’idealizzato Obama, appoggiato da fior di banchieri e poteri forti, sia lontano anni luce dalla parabola del povero ragazzo di colore che dal bronx approda alla Casa Bianca. Obama è tutt’altro. Ma soprattutto ha fallito, travolto dalla crisi economica a cui ha assistito come spettatore e dal declassamento del rating Usa dalla tripla A a Aa+. Popolarità ai minimi oltre oceano, euforia trasformatasi in indifferenza nella penisola italica.
Idem per Zapatero: idealizzato da Veltroni (ma sarà lui che porta sfortuna?), lanciato sul mercato da Sabina Guzzanti che ha ideato il documentario “Viva Zapatero” nel 2005, amato persino dai tre leader della maggiori sigle sindacali Epifani, Bonanni e Angeletti che in coro lo definivano “Un riformista vero” spingendosi fino a slogan come “Altro che Prodi, vogliamo Zapatero”, stimato dall’”autorevole” comico Maurizio Crozza che esclamava “Zapatero Zapatero/l’un per cento del tu carisma me serve aqui!!!”, il premier spagnolo ora ha ammesso di aver fallito, annunciando il suo addio nel 2012. I suoi tanti sostenitori, però, l’avevano già abbandonato. Anche in Italia.
Non c’è da stupirsi: per un breve periodo anche Tony Blair è stato icona della sinistra italiana. Per poco. Tutti i grandi leader europei che vengono accolti dalla sinistra come guru e nuovi Messia ben presto si rivelano dei bluff. Per inconsistenza dei soggetti, in primis, ma anche e soprattutto per ipocrisia della sinistra, che prima sostiene a spada tratta e poi volta le spalle quando si mette male.
Quando mancano idee e progetti, si idealizzano le persone e si formano i culti delle personalità. La sinistra europea e italiana ha bisogno di idoli in cui credere: oltre a Blair, Zapatero e Obama, fallimenti su tutta la linea, in Italia c’è stato il periodo di Veltroni, durato ancora meno. Ora i “salvatori”, i volti nuovo, il “vento del cambiamento” sono Giuliano Pisapia, Luigi De Magistris e Nicola Vendola. I primi due, eletti sindaci a Milano e Napoli, si stanno già rivelando bluff.
Dovremo aspettare che il terzo diventi premier per scoprirne l’inconsistenza, per usare un eufemismo? Speriamo di no.