venerdì 30 luglio 2010

Il durissimo comunicato uscito dall 'ufficio di presidenza del Pdl che sfiducia Fini e finiani



Roma - L'Italia necessita di profondi cambiamenti sia nella sfera economica che in quella politica e istituzionale. Così esordisce il documento finale votato questa sera dall'ufficio di presidenza del Pdl. L'azione del nostro governo presieduto da Silvio Berlusconi e la nascita del Pdl rappresentano - è scritto nel documento- ciascuno nella propria sfera, la risposta più efficace alla crisi del Paese. Il governo ha dovuto agire nel pieno della crisi economica più grave dopo quella del 1929, riuscendo ad evitare, da un lato, gli effetti più dirompenti della crisi sul tenore di vita delle famiglie e dei lavoratori, e, dall'altro lato, preservando la pace sociale e la tenuta dei conti pubblici.
Con la nascita del Pdl, dall'altra parte, la vita politica italiana ha fatto un ulteriore passo in avanti verso la semplificazione e il bipolarismo. Occorre aggiungere che, in questi anni, gli elettori hanno sostenuto e premiato sia l'azione del governo che la nuova realtà politica rappresentata dal Pdl. Immediatamente dopo il nostro congresso fondativo, tuttavia, e soprattutto dopo le elezioni regionali, sono intervenute delle novità che hanno mutato profondamente la situazione, al punto da richiedere oggi una decisione risolutiva.
Invece di interpretare correttamente la chiara volontà degli elettori, nella vita politica italiana hanno ripreso vigore mai spente velleità di dare una spallata al governo in carica attraverso l'uso politico della giustizia e sulla base di una campagna mediatica e scandalistica, indirizzata contro il governo e il nostro partito, che non ha precedenti nella storia di un Paese democratico. L'opposizione, purtroppo, non ha cambiato atteggiamento rispetto al passato, preferendo cavalcare l'uso politico delle inchieste giudiziarie e le speculazioni della stampa piuttosto che condurre un'opposizione costruttiva con uno spirito riformista.
Ciò che non era prevedibile è il ruolo politico assunto dall'attuale Presidente della Camera. Soprattutto dopo il voto delle regionali che ha rafforzato il governo e il ruolo del Pdl, l'On. Gianfranco Fini ha via via evidenziato un profilo politico di opposizione al governo, al partito ed alla persona del Presidente del Consiglio. Non si tratta beninteso di mettere in discussione la possibilità di esprimere il proprio dissenso in un partito democratico, possibilità che non è mai stata minimamente limitata o resa impossibile. Al contrario, il Pdl si è contraddistinto dal momento in cui è stato fondato per l'ampia discussione che si è svolta all'interno degli organismi democraticamente eletti. Le posizioni dell'On. Fini si sono manifestate sempre di più, non come un legittimo dissenso, bensì come uno stillicidio di distinguo o contrarietà nei confronti del programma di governo sottoscritto con gli elettori e votato dalle Camere, come una critica demolitoria alle decisioni prese dal partito, peraltro note e condivise da tutti, e infine come un attacco sistematico diretto al ruolo e alla figura del Presidente del Consiglio.
In particolare, l'On. Fini e taluni dei parlamentari che a lui fanno riferimento hanno costantemente formulato orientamenti e perfino proposte di legge su temi qualificanti come ad esempio la cittadinanza breve e il voto agli extracomunitari che confliggono apertamente con il programma che la maggioranza ha sottoscritto solennemente con gli elettori. Sulla legge elettorale, vi è stata una apertura inaspettata a tesi che contrastano con le costanti posizioni tenute da sempre dal centro-destra e dallo stesso Fini. Persino il tema della legalità per il quale è innegabile il successo del Governo e della maggioranza in termini di contrasto alla criminalità di ogni tipo e di riduzione dell'immigrazione clandestina, è stato impropriamente utilizzato per alimentare polemiche interne.
Il PdL proseguirà con decisione nell'opera di difesa della legalità, a tutti i livelli, ma non possiamo accettare giudizi sommari fondati su anticipazioni mediatiche. Le cronache giornalistiche degli ultimi mesi testimoniano d'altronde - prosegue il documento - meglio di ogni esempio la distanza crescente tra le posizioni del PDL, quelle dell'0n. Fini e dei suoi sostenitori, sebbene tra questi non siano mancati coloro che hanno seriamente lavorato per riportare il tutto nell'alveo di una corretta e fisiologica dialettica politica. Tutto ciò è tanto più grave considerando il ruolo istituzionale ricoperto dall'On. Fini, un ruolo che è sempre stato ispirato nella storia della nostra Repubblica ad equilibrio e moderazione nei pronunciamenti di carattere politico, pur senza rinunciare alla propria appartenenza politica.
Mai prima d'ora è avvenuto che il presidente della Camera assumesse un ruolo politico così pronunciato perfino nella polemica di partito e nell'attualità contingente, rinunciando ad un tempo alla propria imparzialità istituzionale e ad un minimo di ragionevoli rapporti di solidarietà con il proprio partito e con la maggioranza che lo ha designato alla carica che ricopre. L'unico breve periodo in cui Fini ha "rivendicato"nei fatti un ruolo super partes è stato durante la campagna elettorale per le regionali al fine di giustificare l'assenza di un suo sostegno ai candidati del PDL. I nostri elettori non tollerano più che nei confronti del governo vi sia un atteggiamento di opposizione permanente , spesso oggettivamente in sintonia con posizioni e temi della sinistra e delle altre forze contrarie alla maggioranza, condotto per di più da uno dei vertici delle istituzioni di garanzia. Non sono più disposti ad accettare una forma di dissenso all'interno del partito che si manifesta nella forma di una vera e propria opposizione, con tanto di struttura organizzativa, tesseramento e iniziative, prefigurando già l'esistenza sul territorio e in Parlamento di un vero e proprio partito nel partito, pronto, addirittura, a dar vita a una nuova aggregazione politica alternativa al PDL.
I nostri elettori, inoltre, ci chiedono a gran voce di non abbandonare la nuova concezione della politica, per la quale è nato il Pdl, che si fonda su una chiara cornice culturale e di valori, sulla scelta di un chiaro e definito programma di governo, su una compatta maggioranza di governo e sull'indicazione di un Presidente del Consiglio, in una logica di alternanza fra schieramenti alternativi. Questo atteggiamento di opposizione sistematica al nostro partito e nei confronti del governo che, ripetiamo, nulla ha a che vedere con un dissenso che legittimamente può essere esercitato all'interno del partito, ha già creato gravi conseguenze sull'orientamento dell'opinione pubblica e soprattutto dei nostri elettori, sempre più sconcertati per un atteggiamento che mina alla base gli sforzi positivi messi in atto per amalgamare le diverse tradizioni politiche che si riconoscono nel Pdl e per costruire un nuovo movimento politico unitario di tutti coloro che non si riconoscono in questa sinistra.
La condivisione di principi comuni e il vincolo di solidarietà con i propri compagni di partito sono fondamenti imprescindibili dell'appartenenza a una forza politica. Partecipare attivamente e pubblicamente a quel gioco al massacro che vorrebbe consegnare alle Procure della Repubblica, agli organi di stampa e ai nostri avversari politici i tempi, i modi e perfino i contenuti della definizione degli organigrammi di partito e la composizione degli organi istituzionali, è incompatibile con la storia dei moderati e dei liberali italiani che si riconoscono nel Popolo della Libertà. Si milita nello stesso partito quando si avverte il vincolo della comune appartenenza e della solidarietà fra i consociati. Si sta nel Popolo della Libertà quando ci si riconosce nei principi del popolarismo europeo che al primo posto mettono la persona e la sua dignità. Assecondare qualsiasi tentativo di uso politico della giustizia; porre in contraddizione la legalità e il garantismo; mostrarsi esitanti nel respingere i teoremi che vorrebbero fondare la storia degli ultimi sedici anni su un "patto criminale" con quella mafia che mai come in questi due anni è stata contrastata con tanta durezza e con tanta efficacia, significherebbe contraddire la nostra storia e la nostra identità.

sabato 24 luglio 2010

POVERA ITALIA IN CHE MANI SIAMO


Via le croci dal cimitero: danneggiano l’ambiente


La giunta di Lugo di Romagna decide di bandire i simboli di fede dalle lapidi per motivi "ecologici". Ma gli addetti comunali spiegano che "la scelta è stata presa per non urtare le diverse sensibilità religiose"



A Lugo di Romagna la croce sparisce dalle lapidi. Lo stabilisce una delibera della giunta comunale, datata 6 maggio. Il documento dichiara guerra ai simboli sulle tombe: è vietato l’emblema della cristianità ma son pure vietate la stella di Davide e la mezzaluna islamica così come l’eventuale stemma di famiglia. Bandite dalla nuova area del cimitero anche poesie, motti e dediche varie, fosse anche l’innocuo «la vedova inconsolabile lo ricorda con tanto amore».
L’allegato tecnico alla rivoluzionaria seduta di giunta non lascia dubbi. Al punto 3, relativo ai dati anagrafici, stabilisce che «le scritte ammesse sulla lapide sono due». Cioè: «Nome e cognome, data di nascita e morte». Stop. O, meglio, la maggioranza guidata dal sindaco Raffaele Cortesi (Pd) si dilunga sull’altezza dei caratteri, sul carattere tipografico di stampa, sull’allineamento a destra ma niente dice su quelle due assi incrociate che da sempre accompagnano nell’aldilà i lughesi nonché qualche miliardo di esseri umani. Anzi, Cortesi e compagni qualche riga sotto ribadiscono che «la data di nascita e quella di morte non deve essere precedute da alcun simbolo». Una prosa in linea con le disposizioni: contenuto e forma se ne infischiano delle tradizioni, siano religiose e o grammaticali.
La fotografia del defunto, quella sì, è ammessa. Per lo meno fino a quando a qualche assessore non verrà in mente che si rischia una violazione della privacy o di chissà che cosa. Ma anche con le immagini c’è poco da scherzare: l’allegato sentenzia che «la cornice che contiene la fotografia raffigurante il defunto dovrà essere rigorosamente in metallo cromato non lucido e di dimensioni massime pari al formato A6 verticale».
La massima libertà concessa dalla singolare livella lughese è quella di piazzare una pianta sulla singola sepoltura. «Anche ad arbusto». Consapevoli di essersi spinti un po’ oltre, gli amministratori romagnoli hanno pensato bene di vietare qualsiasi sistema di illuminazione votiva.
Il pacchetto di norme, che vale esclusivamente per le tombe a terra della nuova zona del cimitero, ha fatto sobbalzare sulla sedia tutti i religiosi locali, a cominciare dal vescovo Tommaso Ghirelli. Il prelato, per ora, si è chiuso in un prudente silenzio, in attesa di sviluppi. A farsi sentire è stato invece il Pdl locale che per bocca del candidato Franco Della Corte ha bollato la decisione di Cortesi - in corsa per la rielezione a sindaco - come «assurda». «E non è solo una faccenda di libertà religiosa - osserva l’esponente del Pdl - ma di espressione nel senso più ampio».
Eppure dopo il patatrac qualcuno ha provato a metterci una pezza. Il progetto, spiega il vicesindaco cattolico Fausto Cavina, andrebbe valutato in termini di «omogenizzazione tipologica», «arredo» uniforme e «funzione». Giusto quella: «La funzione del verde dovrà nel tempo prevalere sull’edificato». Insomma, la croce è stata bandita a causa di una profonda sensibilità ambientalista. Vuoi mettere la spiritualità dell’arbusto?
Cavina prova pure a negare l’evidenza: «A nessuno è mai venuto per la testa di mettere un divieto di porre insegne religiose». Il vicesindaco parla di «semplici indicazioni finalizzate a omogeneizzare gli elementi cercando di limitare, per quanto possibile, l’effetto di disomogeneità». Peccato ci sia la delibera di giunta a smentirlo. E soprattutto qualcuno ha già scoperto gli altarini (quei pochi rimasti, naturalmente). A spiegare come in effetti stanno le cose è l’avvocato Alessandra Nannini, dell’Adiconsum della provincia di Ravenna: «Un cliente si è rivolto a noi per protestare verso un regolamento che gli negava di mettere una semplice croce sulla lapide di un familiare defunto». Emblematica la risposta degli addetti comunali: «Dicono che la scelta di evitare segni sia stata presa per non urtare le diverse sensibilità religiose». Intanto il sindaco, consapevole di averla fatta grossa, sta meditando di scrivere una lettera ai parroci per tranquillizzarli sulle sue intenzioni. Perché i morti, croce o non croce, non votano ma i cattolici a Lugo hanno ancora un certo peso elettorale. Specie la settimana prima del voto.

venerdì 23 luglio 2010

FINI- FARA' SPONDA ALLA SINISTRA


La profezia sui tradimenti di Fini
di Oriana Fallaci

Nel 2004 Oriana Fallaci dedicò alcune pagine di un libro pubblicato da Rizzoli, La forza della ragione , a Gianfranco Fini. Il giudizio era drastico e in qualche misura preveggente. L’attuale presidente della Camera, paragonato a Togliat¬ti, era già pronto a passare con la sinistra. Allora nessuno ascoltò



Signor Vicepresidente del Consiglio, Lei mi ricorda Palmiro Togliatti. Il comunista più odioso che abbia mai conosciuto, l’uomo che alla Costituente fece votare l’articolo 7 ossia quello che ribadiva il Concordato con la Chiesa Cattolica. E che pur di consegnare l’Italia all’Unione Sovietica era pronto a farci tenere i Savoia, insomma la monarchia. Non a caso quelli della Sinistra La trattano con tanto rispetto anzi con tanta deferenza, su di Lei non rovesciano mai il velenoso livore che rovesciano sul Cavaliere, contro di Lei non pronunciano mai una parola sgarbata, a Lei non rivolgono mai la benché minima accusa.
Come Togliatti è capace di tutto. Come Togliatti è un gelido calcolatore e non fa mai nulla, non dice mai nulla, che non abbia ben soppesato ponderato vagliato per Sua convenienza. (E meno male se, nonostante tanto riflettere, non ne imbrocca mai una). Come Togliatti sembra un uomo tutto d’un pezzo, un tipo coerente, ligio alle sue idee, e invece è un furbone. Un maestro nel tenere il piede in due staffe. Dirige un partito che si definisce di Destra e gioca a tennis con la Sinistra. Fa il vice di Berlusconi e non sogna altro che detronizzarlo, mandarlo in pensione. Va a Gerusalemme, con la kippah in testa, piange lacrime di coccodrillo allo Yad Vashem, e poi fornica nel modo più sgomentevole coi figli di Allah. Vuole dargli il voto, dichiara che “lo meritano perché pagano le tasse e vogliono integrarsi anzi si stanno integrando”.
Quando ci sbalordì con quel colpo di scena ne cercai le ragioni. E la prima cosa che mi dissi fu: buon sangue non mente. Pensai cioè a Mussolini che nel 1937 (l’anno in cui Hitler incominciò a farsela col Gran Muftì zio di Arafat) si scopre «protettore dell’Islam» e va in Libia dove, dinanzi a una moltitudine di burnus, il kadì d’Apollonia lo riceve tuonando: “O Duce! La tua fama ha raggiunto tutto e tutti! Le tue virtù vengono cantate da vicini e lontani!”. Poi gli consegna la famosa spada dell’Islam. Una spada d’oro massiccio, con l’elsa tempestata di pietre preziose. Lui la sguaina, la punta verso il sole, e con voce reboante declama: “L’Italia fascista intende assicurare alle popolazioni musulmane la pace, la giustizia, il benessere, il rispetto alle leggi del Profeta, vuole dimostrare al mondo la sua simpatia per l’Islam e per i musulmani!”. Quindi salta su un bianco destriero e seguito da ben duemilaseicento cavalieri arabi si lancia al galoppo nel deserto del futuro Gheddafi.
Ma erravo. Quel colpo di scena non era una reminiscenza sentimentale, un caso di mussolinismo. Era un caso di togliattismo cioè di cinismo, di opportunismo, di gelido calcolo per procurarsi l’elettorato di cui ha bisogno per competere con la Sinistra e guidare in prima persona l’equivoco oggi chiamato Destra.
Signor Vicepresidente del Consiglio, nonostante la Sua aria quieta ed equilibrata Lei è un uomo molto pericoloso. Perché ancor più degli ex democristiani (che poi sono i soliti democristiani con un nome diverso) può usare a malo scopo il risentimento che gli italiani come me esprimono nei riguardi dell’equivoco oggi chiamato Sinistra. E perché, come quelli della Sinistra, mente sapendo di mentire. Pagano-le-tasse, i Suoi protetti islamici?!? Quanti di loro pagano le tasse?!? Clandestini a parte, spacciatori di droga a parte, prostitute e lenoni a parte, appena un terzo un po’ di tasse! Non le capiscono nemmeno, le tasse. Se gli spiega che servono ad esempio per costruire le strade e gli ospedali e le scuole che anch’essi usano o per fornirgli i sussidi che ricevono dal momento in cui entrano nel nostro paese, ti rispondono che no: si tratta di roba per truffare loro, derubare loro. Quanto al Suo vogliono-integrarsi, si-stanno-integrando, chi crede di prendere in giro?!?
Uno dei difetti che caratterizzano voi politici è la presunzione di poter prendere in giro la gente, trattarla come se fosse cieca o imbecille, darle a bere fandonie, negare o ignorare le realtà più evidenti. Più visibili, più tangibili, più evidenti. Ma stavolta no, signor mio. Stavolta Lei non può negare ciò che vedono anche i bambini. Non può ignorare ciò che ogni giorno, ogni momento, avviene in ogni città e in ogni villaggio d’Europa. In Italia, in Francia, in Inghilterra, in Spagna, in Germania, in Olanda, in Danimarca, ovunque si siano stabiliti. Rilegga quel che ho scritto su Marsiglia, su Granada, su Londra, su Colonia. Guardi il modo in cui si comportano a Torino, a Milano, a Bologna, a Firenze, a Roma.
Perbacco, su questo pianeta nessuno difende la propria identità e rifiuta d’integrarsi come i musulmani. Nessuno. Perché Maometto la proibisce, l’integrazione. La punisce. Se non lo sa, dia uno sguardo al Corano. Si trascriva le sure che la proibiscono, che la puniscono. Intanto gliene riporto un paio. Questa, ad esempio: “Allah non permette ai suoi fedeli di fare amicizia con gli infedeli. L’amicizia produce affetto, attrazione spirituale. Inclina verso la morale e il modo di vivere degli infedeli, e le idee degli infedeli sono contrarie alla Sharia. Conducono alla perdita dell’indipendenza, dell’egemonia, mirano a sormontarci. E l’Islam sormonta. Non si fa sormontare”. Oppure questa: “Non siate deboli con il nemico. Non invitatelo alla pace. Specialmente mentre avete il sopravvento. Uccidete gli infedeli ovunque si trovino. Assediateli, combatteteli con qualsiasi sorta di tranelli”.
In parole diverse, secondo il Corano dovremmo essere noi ad integrarci. Noi ad accettare le loro leggi, le loro usanze, la loro dannata Sharia. Signor Fini, ma perché come capolista dell’Ulivo non si presenta Lei?».
New York, gennaio 2004

Sono i sindacati a portare all’estero la Fiat




Sicuramente hanno sbagliato qualcosa i sindacati alla Fiat. È come se la Cgil e, al suo interno, la Fiom, che rappresentano l’ala dura delle organizzazioni dei lavoratori, si fossero infilate in un tunnel senza uscita. E forse, inconfessabilmente, qualche dirigente ne è consapevole. Viceversa diventa difficile comprendere il contrasto tra le proteste e gli scioperi di questi giorni in Italia, e il successo che l’ad Marchionne sta riscuotendo urbi et orbi con il suo piano per la Fiat. Il Financial Times ieri parlava di «oracolo dell’industria dell’auto». Mentre qui da noi persino la Repubblica, quotidiano che non ha certo una tradizione «padronale» alle spalle, simpatizzava con gli operai della Chrysler che vedono in Marchionne il salvatore della loro esistenza. Invece, in questa giornata trionfale in cui il titolo galoppava in Borsa, dalla segreteria nazionale Cgil è arrivata una nota che parla di «ritorsioni nei confronti dei lavoratori». Il riferimento è all’ipotesi di spostare le produzioni di Mirafiori in Serbia.
Il leader del Pd, Pier Luigi Bersani, è entrato sulla questione evocando lo smantellamento delle fabbriche torinesi come qualcosa di «sorprendente», quando il marchio stesso del gruppo è «Fabbrica Italiana Automobili Torino». Di certo l’idea che Fiat lasci Torino, e in definitiva l’Italia, è forte e solleva polveroni a destra come a sinistra. Ma è qui che bisogna fermarsi un momento a riflettere: di cosa stiamo parlando? Marchionne non ha mai voluto il trasloco della produzione. Il piano prevede un’altra cosa: lo scorporo dell’auto dal resto del gruppo, affinché il capitale di Fiat si possa aprire a nuovi investitori che immettano risorse fresche. Un’eventualità che potrebbe vedere gli Agnelli andare in minoranza. Ma anche se dovesse succedere, Fiat resterebbe comunque un’azienda italiana, radicata nel territorio. Una multinazionale basata comunque in Italia.
Ma se invece si dovessero smantellare dopo Termini, anche Pomigliano e Mirafiori, allora sì che le cose cambierebbero. Allora sì che la Fiat non potrebbe più dirsi italiana. Ma questa non è la scelta di Marchionne, che nel piano ha calcolato ben 20 miliardi di investimenti da qui al 2014 per la «Fabbrica Italia». Questo è semmai il rischio che i sindacati, con la loro intransigenza, fanno correre al gruppo. Forse sperando di trovare sponde varie nella politica. Senza capire, invece, che Marchionne è «avanti». Ne ha avuta la prova alla Chrysler. Non si fermerà.

giovedì 15 luglio 2010

Lega “ladrona” mette l'Italia nell'illegalità




la multa delle quote latte pagata da tutti
Dall'Ue 1,5 miliardi di euro di multa per gli allevatori del Nord
che hanno sforato la produzione. Casini: un aiuto ai furbetti



di Marco Conti
ROMA (15 luglio) - Un miliardo e mezzo di euro di multa che, divisi per i tre milioni di voti che la Lega ha preso nel 2008, fanno 500 euro. Il contribuente italiano pagherà salato i consensi che il Carroccio raccoglie tra le 23 mila aziende di allevatori del Nord che grazie al ”regalino” contenuto nella manovra correttiva, potranno evitare di pagare le multe.

Un ”dono” ancor più pesante se si considera i tagli che il mondo dell’agricoltura ha già subito e che subirà molto presto dalle regioni. Inoltre, grazie al maxiemendamento, si premieranno i furbetti. Ovvero quegli allevatori che non hanno pagato, e non hanno intenzione di pagare le multe. Allevatori che la Lega, movimento che lotta contro gli sprechi... degli altri, difende e protegge trovando nel superministro dell’Economia un nume tutelare non da poco.

Dice infatti il leader dell’Udc Pier Ferdinanco Casini: «La manovra economica è inevitabile ma è fatta male, si chiedono sacrifici ma poi si aiutano i furbetti delle quote latte. Ci sono troppi emendamenti della Lega di cui Tremonti è garante, il ministro è stato garante delle furberie della Lega». Casini sottolinea la questione morale perché «non si può dire a chi ha pagato che ci sono altri che fanno i furbi e non pagano. La Lega protegge quegli allevatori che non hanno pagato mentre sarebbero necessarie più equità e meno furberie».

Pochi giorni fa il commissario Ue all’Agricoltura aveva scritto al ministro italiano competente Giancarlo Galan che «la sospensione dei pagamenti, prevista nell’emendamento, sarebbe non solo in netto contrasto con il diritto Ue ma anche con i ripetuti impegni, assunti a livello politico dal Governo italiano, di imporre una rigorosa ed efficiente applicazione del regime delle quote latte in Italia».
Duro anche Sandro Gozi, responsabile politiche europee del Pd, e membro della commissione per le Politiche comunitarie della: «Con il voto di oggi, sulle quote latte, la Lega ”ladrona” mette tutta l’Italia nell’illegalità e fa pagare a tutti i contribuenti italiani le colpe di pochi produttori, ci isola in Europa in un momento chiave per l’elaborazione della nuova politica agricola comune».

Comunque, ad essere penalizzati sono ancora una volta gli agricoltori del Sud.

domenica 11 luglio 2010

LA STUPENDA INTERVISTA DI OGGI DI PINO RAUTI A "IL FATTO QUOTIDIANO"



ECCO L'INTERVISTA DI PINO RAUTI (SEGRETARIO NAZIONALE DEL MOVIMENTO IDEA SOCIALE) A "IL FATTO QUOTIDIANO"!
È il grande paradosso della destra italiana: oggi, intorno a Gianfranco Fini, c’è una generazione di dirigenti cresciuti nella palestra di Pino Rauti, l’uomo che (prima di Silvio Berlusconi) è stato il più acerrimo nemico dell’ex leader di An. Così, per cercare la chiave di questo enigma, Il Fatto è andato a intervistare l’interessato: ex ideologo di Ordine Nuovo, l’ex segretario del Msi che teorizzava lo “sfondamento a sinistra”, e che ora – invece – è tornato nell’area del berlusconismo. Un’intervista piena di aneddoti sapidi, paradossi, e qualche sorpresa. Rauti è al mare, a Fregene, nell’albergo la Conchiglia. Caldo afoso, sul tavolo un bicchier d’acqua, le pillole: “Lei è venuto da un vecchio di 84 anni…”.
Onorevole Rauti perché con Fini ci sono gli uomini (e le donne) che ha cresciuto lei?
Sa che questa constatazione mi tormenta da mesi?
Davvero?
Mi pongo la domanda, ma non so se ho trovato la risposta.
La finiana più eclettica, Flavia Perina, per lei è di famiglia.
Non mi capacito: Flavia è cresciuta sulle mie ginocchia. Tutti i Natali e le feste eravamo a casa dei suoi, Marcello e Wilma. Pescavamo insieme i bussolotti della tombola…
Vi sentite ancora?
Sì, ma non riesco a convincerla. Non condivido la linea, ma tecnicamente il Secolo è bellissimo.
Lei è il più antico “disistimatore” di Fini.
Non lo nego. Ma era lui ostile a me, credo, per un antico complesso di inferiorità.
Almirante l’aveva fatto leader, lei gli scippò la carica…
E chi se lo dimentica il congresso di Rimini? Una sfida epica, all’ultimo voto. Vinsi. Ma fin dal giorno dopo mi resi conto come sarebbero andate le cose.
Cosa accadde?
Andai nell’ufficio di via della Scrofa. Gli tesi la mano. Non la strinse: l’uomo è così.
Anche lei non lo amava…
Non c’è dubbio. In un comitato centrale gli dissi: “Il tuo problema è che hai letto meno libri di quanti io ne abbia scritti”.
Oggi Fini cita saggi, libri…
Temo che la contabilità delle letture sia rimasta invariata…
Insomma, lei non gli riconosce delle doti.
Oh sì! È un grandissimo tattico. Coriaceo, tenace: molto, molto più scaltro di me, non c’è dubbio. Recentemente l’ho spiegato al nostro premier.
A chi, a Berlusconi?
Giorni fa mi ha chiamato facendomi le sue stesse domande…
Cosa gli ha consigliato?
Di cacciarlo appena possibile.
Parla sempre per la sua esperienza da segretario?
Fini è un oppositore micidiale. Non c’è nulla che sappia fare meglio che distruggere.
Addirittura?
Dal giorno dopo il congresso, in tutte le riunioni prendeva la parola e piantava una grana.
Ora è in minoranza netta.
Lo era anche nel 1990, se è per questo. Ma gli riesce molto bene scompaginare le maggioranze altrui. Guardi cosa ha fatto con Bossi sulle intercettazioni.
L’altro fatto curioso è che usa molte sue parole d’ordine…
La prego, non lo dica! Ha saccheggiato alcune delle mie battaglie. Ma le ha sottomesse a una visione giacobina!
Chi era più fascista tra voi?
Quando eravamo rivali, era lui ad accusare me di non esserlo abbastanza! Lui era ortodosso e nostalgico, io eretico. Lui iperfascista, io già postfascista.
È cambiato pure lei?
Sa quale era il suo slogan preferito? ‘Caro Rauti, io la parola fascismo ce l’ho scritta in fronte’. Abbiamo memoria corta…
Un altro finiano, Viespoli, era tra i suoi pupilli…
Intelligentissimo, ma… Ahhh!Se le raccontassi un aneddoto…”.
Quale?
Viespoli prese a sganassoni Fini, a Montesarchio, perché da segretario del Fronte della Gioventù ultra-almirantiano, voleva vietare i campi Hobbit! Capisce? L’uomo della democrazia.
Però l’antirazzismo sull’immigrazione e l’idea di una destra sociale antimercatista sono suoi cavalli di battaglia.
Lui è integrazionista, io tradizionalista: c’è una bella differenza!
Anche Lanna e Rossi, i due dioscuri di FareFuturo si sono abbeverati alla sua fonte…
Guardi, di Rossi conosco il fratello, Lanna quando ero segretario era ragazzino… Sono la terza generazione rautiana.
E poi c’è Augello.
Che prese a schiaffi Fini.
Pure lui!!?
Eh, eh… Nella stessa occasione, se non sbaglio. Fini non era molto popolare tra i giovani, come forse saprà.
Solo Bocchino è tatarelliano.
Suo padre era rautiano di ferro!
Come mai Fini prevalse?
Commisi il più grosso errore della mia vita: negare la presidenza ad Almirante. E poi lo sfondamento a sinistra, prima della caduta del Muro, era un’idea troppo avanzata. E poi: io ero definito un repubblichino stragista, Fini ha sempre goduto di una stampa incredibilmente favorevole.
Perché “incredibilmente”?
Non lo so… ci saranno fattori extrapolitici, dei grembiulini…
Ma insomma, perché i rautiani stanno con Fini?
Forse per una vocazione all’eresia. Il dissenso dal verticismo, la centralità della cultura che li porta all’antiberlusconismo. Berlusconi dovrebbe sottrargli ragioni moderando il liberismo.
Mi fa un esempio?
Ero per il No al referedum di Pomigliano. La destra non può essere padronale.
Ma alla fine chi vince fra Berlusconi e Fini?
Fini è abile e raffinato, ma è tutto calcolo. La politica italiana, senza di lui, non cambierebbe. Senza Berlusconi nulla sarebbe come prima. Vince Berlusconi, ma solo se gli toglie la ribalta della presidenza della Camera

venerdì 9 luglio 2010

FALSO EROE DEI TERREMOTATI


I soliti giornali, quelli capitanati dagli specialisti dei post-it gialli, hanno fatto passare questo tizio che vedete in fotografia come uno dei terremotati dell’Aquila . La sua foto, con la testa insanguinata, in seguito agli scontri con le forze dell’ordine durante la manifestazione dei cittadini aquilani, era troppo ghiotta per non essere strumentalizzata. Da lì a sostenere che “il governo (e quindi Berlusconi) picchia i terremotati” il passo è breve, specialmente per certi ossessionati di professione. Perché, ricordiamolo, siamo in un regime e in una dittatura violenta.
Insomma, questo tizio sarebbe un terremotato. Uno che ha perso la casa per il terremoto, e uno che Berlusconi non ha aiutato. Ma anzi abbandonato. Non si sprecano nemmeno le interviste, con questo signore che dichiara:
“Non mi ha ucciso il terremoto, figuriamoci se lo farà qualche manganellata. Ho voluto prima lasciare le impronte del mio sangue su un muro per testimoniare il sangue degli aquilani in questa manifestazione”
Già queste parole dovrebbero far pensare. E molto. Ma non è finita:
Vivo in un camper, ma non me ne importa. Sono qui per la gente che ha più bisogno di me. Non ho precedenti penali di nessun tipo.
Ecco. In realtà è tutta una mega balla. Questo signore, questo nuovo eroe dell’Aquila anti-berlusconiana, non è nemmeno aquilano (è di Bari). Fa il pizzaiolo all’Aquila, ed era in affitto. Quindi non ha nemmeno perso la sua casa. E non solo, il tizio ha precedenti penali: conosciuto dalle forze dell’ordine, denunciato per invasione di edifici, truffa, ingiuria, minacce, danneggiamento e detenzione di stupefacenti.
Ma ormai è un eroe. Un classico eroe della sinistra, un falso pacifista, uno che per farsi dare una manganellata in testa ha violato il posto di blocco delle forze dell’ordine. Ma la colpa chiaramente è della polizia, lui è un eroe.

mercoledì 7 luglio 2010

Le Regioni NON ci stanno a veder tagliati i propri fondi.



Le Regioni NON ci stanno a veder tagliati i propri fondi (perchè hanno già il pieno di debiti e di sprechi). Vorrebbero la divisioni in "VIRTUOSE" e NO. Cioè in buoni e cattivi. Per cui bisognerebbe toglier denari ai meno virtuosi per toglierne pochissimi ai BUONI.
Ma dato che la Regione non può mettere tasse proprie...come fa un Presidente di Regione a pagare i debiti che gli hanno lasciato i suoi predecessori "allegri" ??
Dichiara fallimento e si fa pignorare i Beni di proprietà della Regione ?
Si mette a vendwere monumenti, parchi e ville storiche ???
Gioca a Win for Life ? stabilisce in bilancio un capitolo per l'acquisto di alcuni blocchi di "Gratta e Vinci" ?
La Sicilia ha il record folle per la spesa sanitaria: è stata il campo privilegiato degli affari più sporchi e del voto di scambio...d'accordissimo....
E SE DOMANI...un "buono" divenisse Presidente della Regione COSA potrebbe fare se non ereditare i debiti delle precedenti amministrazioni clientelari ?
Ed accettando i Tagli, con relativa diminuzione dei servizi erogati, che figura DI MERDA farebbe di fronte ai suoi cittadini-elettori ? Non farebbe la figura del "CATTIVO" che nega visite, esami e ricoveri ? E se il "buono" subisce questo colpo ...NON è chiaro che le prossime elezioni le vinceranno di nuovo I CATTIVI ?
Non si sta creando un CIRCOLO VIZIOSO ?

lunedì 5 luglio 2010

IL NOSTRO INNO AL COMPLETO.


Diffuso nella speranza che faccia riflettere ognuno i noi, perché, non tutti conoscono il nostro Inno Nazionale al completo.

Canto degli Italiani

Fratelli d'Italia
L'Italia s'è desta,
Dell'elmo di Scipio
S'è cinta la testa.
Dov'è la Vittoria?
Le porga la chioma,
Ché schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un'unica
Bandiera, una speme:
Di fonderci insieme
Già l'ora suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Uniamoci, amiamoci,
l'Unione, e l'amore
Rivelano ai Popoli
Le vie del Signore;
Giuriamo far libero
Il suolo natìo:
Uniti per Dio
Chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Dall'Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano,
Ogn'uom di Ferruccio
Ha il core, ha la mano,
I bimbi d'Italia
Si chiaman Balilla,
Il suon d'ogni squilla
I Vespri suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Son giunchi che piegano
Le spade vendute:
Già l'Aquila d'Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d'Italia,
Il sangue Polacco,
Bevé, col cosacco,
Ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte

Nichi, il "cialtrone" che fa il secessionista



di Giancarlo Perna

Vendola smascherato da Tremonti come governatore incapace di sfruttare i fondi Ue in Puglia reagisce con le minacce: "La mia gente dice che bisogna staccarsi dall’Italia". In realtà soffre perché il governo ha affidato il denaro al rivale Fitto


Incluso a pieni voti nella lista tremontiana dei «cialtroni» incapaci di spendere i fondi Ue per il Sud, il governatore della Puglia ha perso la trebisonda. Anziché replicare a tono alla garbata giornalista de La Stampa che gli chiedeva conto dei suoi acclarati demeriti, Nichi Vendola ha dato in escandescenze. Doveva semplicemente spiegare perché sta mandando in fumo 3.064 milioni di euro destinati alla Puglia se solo la Regione si degnasse di approntare un decente piano di spesa. Ripeto: seimila miliardi di vecchie lire che Bruxelles è pronta a versare sull’unghia in cambio di uno straccio di idea su come utilizzarli.
Beh, invece di dire qualcosa di intelligente, Vendola ha minacciato la secessione dal Paese. Imbufalito ha detto: «Al Sud, sta montando la rabbia: sento dire adesso basta, meglio separarsi dal resto dell’Italia». Non è ancora chiaro se pensi a una solitaria Repubblica di Puglia o a un’uscita collettiva da Napoli a Palermo, Sardegna compresa. In attesa di capire se si punti al trasloco del tacco o dell’intero mezzo stivale, spiego la ragione primaria del travaso di bile.
A rodergli particolarmente le budella è, infatti, la decisione di Giulio Tremonti di affidare la somma nelle mani di Raffaele Fitto: sia il ministro delle Regioni - vista l’insipienza vendoliana - a fare il programma e presentarlo all’Ue. Ma Fitto, agli occhi tardo comunisti di Nichi, ha il grave difetto di essere del Pdl e pugliese. Quindi avversario politico e rivale regionale. Un affronto che gli ha fatto tintinnare l’orecchino al lobo. «Se bloccano quei fondi per la Puglia - ha detto il governatore dimezzato - è come scoppiasse la bomba atomica».
Vagli a spiegare che a bloccarli è la sua inadeguatezza e che compito di Fitto è sbloccarli. Ma siccome i soldi sono soldi, il solo pensiero che a maneggiarli siano altri, lo manda in bestia. Non sia mai che Fitto li spenda bene e la Puglia ne ricavi vantaggio. Che ne sarebbe di Nichi se accadesse? La fine della luna di miele con i pugliesi già durata cinque anni, il brusco risveglio dal sogno di farsi capataz dei conterranei per i prossimi dieci emulando il regno di Formigoni in Lombardia, l’incubo che il suo pavoneggiarsi da statista si riveli per quello che è: un bluff impastato di retorica, chiacchiere e abissale vanagloria.
Ecco perché l’intervista, a mano a mano che procede, si libra nel surreale. Anziché individuare una strategia per riacciuffare il denaro Ue, evitandone lo storno verso Paesi più concreti, Nichi si autosviolina.
«Sono appena stato a Shanghai e sa perché?», chiede all’intervistatrice. Pare di vederlo mentre pitoneggia la giornalista cercando di imbambolarla. Segue un attimo di silenzio denso di mistero, poi riprende: «La regione più industrializzata della Cina chiede a noi (pugliesi, ndr) come risolvere i suoi enormi problemi di smaltimento rifiuti, ripulitura delle acque, qualità dell’aria». Già. Per tutto il Celeste Impero, da Shanghai a Pechino, è tutto un invocare: «Ven-do-la, plego, da-le a noi, tua licet-ta per smalti-le la mon-ne-zza».
Con che faccia Nichi evochi proprio i rifiuti per vantare benemerenze, non si capisce. La Puglia è una pattumiera a cielo aperto. Per il Corpo forestale dello Stato è il regno delle discariche abusive. Si contano a centinaia, mentre quelle ufficiali sono in via di esaurimento. Il 60 per cento delle cavità naturali (le meravigliose grotte pugliesi) è ricettacolo di rifiuti: auto, rottami, inquinanti vari. In base al rapporto di quest’anno di Legambiente, la terra governata dal redentore della Cina occupa saldamente il secondo posto nel ciclo illegale dei rifiuti, è al top per i traffici internazionali dei rifiuti in entrata o in uscita, imperano le ecomafie. Il tutto per il caparbio rifiuto di Vichi, imbevuto di ecologismo pecoraroscaniesco, di utilizzare i termovalorizzatori dei quali ha ordinato il blocco.
Quanto alle acque, meglio stendere un velo pietoso. La Regione è titolare del più noto acquedotto d’Italia - quello pugliese, appunto - che è anche il più bucherellato. Gli sprechi sono mastodontici. Nonostante ciò Vendola si è messo alla testa del movimento che vuole impedirne la privatizzazione - e modernizzazione - suggerita dal governo. Se è con questo bagaglio che Vichi darà una mano alla Cina, il pericolo giallo è bello che risolto: il lanciatissimo Paese si inabisserà nella preistoria e chi s’è visto, s’è visto.
Per li rami della strampalata intervista, trova anche spazio la protesta di Nichi per le farragini burocratiche che ostacolano le grandi opere. Non è perciò colpa sua se non gli riesce manco un brogliaccio per intercettare i tre miliardi e passa di fondi Ue. Che le scartoffie siano di inciampo, non ci piove. Basterebbe però attrezzarsi e ingaggiare qualche fine cervello sul mercato - se non ce l’ha in casa -, anziché piagnucolare a mezzo stampa. È nel Mezzogiorno che l’uso dei finanziamenti europei non decolla. In Lombardia, con gli stessi ostacoli, si utilizzano che è una bellezza.
In conclusione, messo di fronte alle difficoltà, il governatore, anziché di rimboccarsi le maniche, prende una scorciatoia da Bossi dei poveri: urla che il Sud è stufo e minaccia la secessione di Bari. Ridicolo se non fosse penoso. Se già ciurla con lo Stato alle spalle - e con l’Ue che gli offre tre miliardi su un vassoio d’argento - figurarsi come se la caverà domani con la sola consulenza di Lecce, i consigli di Foggia, i punti di vista di Brindisi. Può darsi però che abbia ragione lui. Seceda. Sarà la volta che, messo alle strette, proverà almeno a cavare un ragno dal buco.
Adesso, comunque, dà solo prova di strafottenza smargiassa per nascondere impreparazione e impotenza. È il limite delle classi dirigenti del Meridione. Mentre l’Umberto vaneggia di autodeterminazione, ma almeno lo fa da una posizione di forza, Vichi fa altrettanto senza neanche avere un santo cui votarsi. E dell’Italia - la vera vittima dei tornei verbali dei politici - chissene importa. È il corpore vili che da destra e da sinistra si tagliuzza a piacimento.
Quando Vendola nel 2005 fu eletto per la prima volta governatore, pianse. «È gioia?», gli fu chiesto. «È dolore - rispose -. Soffro perché entro nel cuore del potere». Aggiunse: «Per essere felici col potere bisogna amarlo e io sono disamorato del potere. Ho paura di sporcarmi la faccia». Perfetto. Se l’è sporcata. Faccia fagotto.

domenica 4 luglio 2010

Il dopo Cavaliere? Uno scenario che mette i brividi



di Marcello Veneziani

Al suo posto il mercato della politica offre solo delle mezze cartucce. Risultato? I problemi del Paese, anziché risolversi, aumenterebbero
Allora, portiamoci avanti nel programma, affacciamoci nel futuro e facciamo un’ipotesi, o forse due. Immaginiamo che il sogno di oppositori, tramatori, dissidenti e casta mediatico-intellettuale si realizzi: va a casa il governo Berlusconi. Le soluzioni a questo punto sono di due tipi: un governo istituzionale, che valorizzi tutti i terzini della Repubblica, da Fini a Casini, da Rutelli ad Amato, più gli outsider, da Montezemolo a Draghi, e la benedizione di Napolitano. Oppure votando, nella ferrea logica bipolare dell’alternanza, un vero governo delle opposizioni, un centrosinistra Bersani-Di Pietro, con recupero di zombie, da Prodi a D’Alema, da Veltroni alla Bindi; e se volete come gadget pure Pecoraro Scanio.
Dopo aver pensato alla cosa essenziale, mandare a casa Berlusconi, pensate ora a quel fastidio aggiuntivo da sbrigare: governare gli italiani e affrontare le emergenze reali del Paese. Pensate che succede. Prendo dal cilindro alla rinfusa sei o sette conigli: la crisi economica e la necessità dei tagli, la disoccupazione giovanile, il federalismo e la riforma della pubblica amministrazione, la libertà d’informazione e il sostegno alla cultura e alla ricerca, alla scuola e l'università, la giustizia e la sanità. Ci fermiamo? Fermiamoci qui.
Beh, immaginate all’opera i successori di Berlusconi e di Tremonti, di Maroni e di Sacconi, di Brunetta e della Gelmini, di Alfano, Letta e Bertolaso; sia del versante sinistro sia del versante terzisti. Pensate che riuscirebbero a fare tagli più seri nella pubblica amministrazione, a dimezzare la casta, le Province, i Comuni, la spesa pubblica? Pensate che riuscirebbero a infierire meno sugli italiani e senza spremere Comuni e Regioni? Pensate che riuscirebbero ad arrestare più mafiosi, una volta assodata la responsabilità di Dell’Utri, o che riuscirebbero a bonificare la casta, una volta celebrato il processo a Brancher? Pensate che la giustizia sarebbe più rapida, meno fallibile e non lascerebbe ancora impunito il 95 per cento dei reati, una volta processato alla grande Berlusconi? Pensate che gli statali senza Brunetta lavorerebbero di più e si assenterebbero di meno, e così i professori sarebbero meglio pagati e più motivati, dando di più alla scuola e ai loro alunni? Che a Napoli e all’Aquila sarebbero più efficaci con immondizia e sisma senza Bertolaso?
E ancora: pensate che la cultura italiana, mortificata da questo governo, avrebbe un suo rinascimento miracoloso; e ripristinati i finanziamenti a enti e fondazioni degli amici ci sarebbe la fioritura di opere, musei, biblioteche, una volta scacciato il Tiranno Silvio, il tirannello Tremonti e l’aguzzino Bondi? Pensate che ci sarebbe più pluralismo e libertà di stampa? Pensate che la disoccupazione scenderebbe, gli italiani figlierebbero, l’Italia funzionerebbe di più, l’immigrazione sarebbe una festa come il Gay pride, gli ospedali funzionerebbero meglio, il federalismo si farebbe ma quello buono; meno droga, vizi e malaffare, e magari l’Italia in semifinale ai mondiali? Pensate che si riscoprirebbe, senza Bossi e Silvio, l’identità nazionale, che si celebrerebbero alla grande l’amor patrio e l’Italia unita, e ci sentiremmo una comunità viva, alla riscoperta delle sue tradizioni? Non dico il paradiso, ma almeno un miglioramento relativo rispetto al presente?
Beh, sono pronto a mettere la mano sul fuoco che l’Italia non starebbe neanche un filo meglio di come sta adesso, sia se ci fosse il governo dei tecnici e dei terzini, sia se ci fosse un governo di centrosinistra. Starebbe peggio, salvo da un punto di vista: è vero, avremmo sicuramente meno sesso e colore in politica, meno escort e giudici eccitati. Vi basterebbe questo per dirvi soddisfatti? A me no, a me interessa tutto il resto che dicevo prima.
E non sono felice di dire che con loro sarebbe peggio, perché se solo ci fosse la possibilità concreta di migliorare le cose sarei pronto a rischiare. Ma conosco quelle facce, quelle alleanze, quelle mentalità, so di che figuri, figurini e mezze cartucce stiamo parlando, abbiamo esperienze precedenti. Né penso che sia possibile avere condizioni migliori di quelle presenti in termini di maggioranza numerica e di mandato popolare. Anzi, fa rabbia proprio questo: sapere che con quei numeri, con un premier popolare, molte spanne più su degli altri che sono sul mercato, l’Italia arranca e perde fiducia.
Arrivo a dire che l’arma segreta del centrodestra, la vera forza del governo Berlusconi, è proprio nel paragone con le altre ipotesi in campo. Allora dico due cose: la prima è che gli italiani devono fare affidamento su se stessi, mettersi sotto, non aspettare niente da nessuno, disporsi a sacrifici e rischi, cioè esser pronti a rinunce e conquiste, difesa e attacco. La seconda è la sveglia al governo: non basta crogiolarsi sui sondaggi o sulla consolazione che gli altri sono peggio, si deve riprendere la fiducia di modificare, di avviare riforme vere, strutturali, avendo il coraggio di andare avanti o di ritirare le decisioni infelici. Con una nota speciale e controcorrente per Berlusconi: decida di più, assuma di più il comando.
Non venitemi a raccontare che il problema dei problemi italiani è Berlusconi col suo governo. A parte la crisi internazionale, il problema italiano è la muffa: questo Paese ha la muffa. Voglio dire che questo Paese è avariato, ha frutti degenerati; è invecchiato, corrotto, alterato, emana un cattivo odore, una patina putrefatta divora la sua buccia e attacca la sua polpa. Certo, la muffa rare volte può dare anche gusto, come nel gorgonzola; o se ben usata può rivelarsi perfino terapeutica, come la penicillina. Ma la muffa narra di un Paese andato a male. È la muffa il Nemico Principale, non Berlusconi, e nemmeno i giudici, Fini o Di Pietro, Marcello Lippi o Marcello Dell’Utri (che periodaccio per i Marcelli). Poi qualcuno favorisce il propagarsi della muffa e altri meno. Ma la muffa è la vera emergenza d’Italia, e con l’inerzia cresce. O lo capite o finisce male.

venerdì 2 luglio 2010

Duello Fini-Bondi e volano parole pesanti




ROMA — Quasi un duello, cominciato con complimenti in punta di fioretto e finito a sciabolate, con Gianfranco Fini che affonda sui casi Brancher, Cosentino, sulla «sudditanza» del partito verso la Lega, sul «diritto al dissenso» e Sandro Bondi che risponde «amareggiato», dice che il presidente della Camera sta diventando «un serio impedimento al partito» e paventa l’arrivo dei «comunisti». Le premesse di uno scontro — nel dibattito organizzato da Alessandro Campi direttore della nuova «Rivista di Politica» — ci sono tutte. Il moderatore Pierluigi Battista dà il la. Fini comincia cauto, ma getta subito qualche seme dello scontro incipiente, invitando a ripensare l’ossessione per la società civile: «La politica—dice—non è improvvisazione, non è sondaggio. Non è insultante essere professionisti della politica». A Berlusconi forse ronzano le orecchie, ma Bondi opta per un’apertura di credito: «Mettiamo da parte le cose che ci dividono e partiamo dalle cose che ci uniscono, come la riduzione dei parlamentari e la fine del bicameralismo perfetto». Fini non raccoglie, attacca la legge elettorale dei «nominati» e passa alla democrazia nel partito: «Non si può dire segui la linea sennò sei fuori. Dico una cosa un po’ cattivella, le espulsioni per eresia accadevano nei partiti non liberali, nel Pci e anche nell’Msi.

Il punto è: giusto il rispetto della maggioranza, ma poi, dopo il voto, devo fare un’abiura? Qui si tratta di rivendicare il diritto al dissenso, perché una democrazia è tale se non c’è il pensiero unico». Fini chiede un congresso e attacca su unità nazionale e legalità, «valori fondanti che non possono essere messi ai voti». Bondi tira un sospirone e sorride a fatica: «Qui c’è un problema di fondo, che rischia di diventare un serio impedimento al partito unitario. La legge elettorale non è una questione dirimente, possiamo discuterne. E poi evocare sempre l’eresia, l’abiura, è sbagliato, non c’è bisogno ». Segue siparietto (Fini: «Quando Bondi comincia a darmi del lei si mette male»; Bondi: «Ma io do del lei anche a Berlusconi »). Bondi prosegue: «Non è la Lega che mette in discussione l’unità nazionale, sono le condizioni del Sud. Se marchi solo le differenze diventi un controcanto sterile, invece puoi dare un contributo al partito». A questo punto si è passati al «tu», ma Fini non è sollevato: «Sono più preoccupato di prima: mi confermi la sudditanza verso la Lega». Poi la sfida: «Quale Paese al mondo ha un sottosegretario del quale hanno chiesto l’arresto per gravi reati?». Riferimento a Nicola Cosentino. Bondi reagisce: «Un po’ di garbo, i dirigenti si difendono, si esprime solidarietà». Non per Fini: «Dobbiamo essere come la moglie di Cesare, al di sopra di ogni sospetto». Affondo finale sulle critiche di Pietro Grasso (Bondi replica: «Ma non è il Vangelo») e su Brancher: «Non voglio che ci sia il sospetto che qualcuno si faccia nominare ministro per non andare in tribunale». Bondi: «Mi scoraggio, così avremmo avuto i comunisti al governo». Fini: «Ma che c’entra?».