martedì 14 aprile 2009

OSPEDALE BUSSOLENGO

Del nostro disagio sanitario

di Marco Anderle, -



E’ l’una del 20 marzo, nella sala d’attesa del Pronto soccorso dell’ospedale di Bussolengo sostano mortificate una trentina di persone, i più fortunati seduti, gli altri in piedi. “Ci scusiamo per il disagio, ma c’è un medico solo”.

Ho portato un panino imbottito a mia madre, lì ad aspettare notizie della nonna sotto accertamenti dalle dieci e mezza. “Se andrà bene verrà parcheggiata in astanteria – mi spiega – non ci sono posti in reparto”. Non ci sono mai posti. In nessun ospedale di Verona e provincia, tanto che si sente di malati spintisi fino in Trentino, o in Lombardia.

Un’infermiera di passaggio vede il trambusto nella sala e accenna: “Taglieranno ancora…”. I politici ridurranno di nuovo le risorse, intende dire il camice verdeazzurro. Veniamo da una notte all’astanteria del Punto di primo intervento di Caprino, dopo l’ennesima emergenza. Il rito è lo stesso di sempre: a Caprino fanno le prime analisi, ma mancano macchinari o medici specialisti e si viene immancabilmente spediti all’Orlandi di Bussolengo, il vero Pronto soccorso delle vicinanze, giunto alla crisi.

Quand’anche risalenti a poco prima, le analisi di Caprino vengono rifatte a Bussolengo, e la nonna che ha le ossa accartocciate e la morte a un palmo di mano non se n’è mai lamentata, non ne ha più la forza. In tre anni di andirivieni ospedalieri m’è parso di capire che questi due presidi della stessa Ulss, la 22, siano perfetti sconosciuti. Non c’è intesa. Ho visto documenti clinici perdersi nei trasferimenti, medici che stentano a comunicare con i colleghi dell’altro ospedale, ridondanze burocratiche e tante occasioni di sinergia sprecate. Nei casi in cui il tempo è una discriminante, l’inefficienza del collegamento fra un Punto di primo intervento e l’altisonante “polo” ospedaliero bussolenghese mette letteralmente a repentaglio la vita dei malati.

Arrivano le sei del pomeriggio, la nonna è ancora nel corridoio interno al Pronto soccorso, dove non ci hanno fatto entrare. Mia madre è esausta, ha alle spalle una notte insonne e troppi calvari. In sala d’attesa continua la confusione e tra le facce avvilite molte sono le stesse di stamattina. Sembra la scena d’un film documentario, uno che non credevo potesse trovare ambientazione nel Veneto, in territorio veronese.

I dottori e gli infermieri presenti corrono come forsennati (se ne trovano di squisiti, capaci e generosi, ma non mancano gli scontrosi, i poco professionali, gli sgarbati). Strappo loro commenti sparsi: “Purtroppo le risorse sono ridotte all’osso… Bussolengo è arrivato a servire un bacino enorme senza averne i mezzi, e non ci sono posti letto”. Adesso capisco perché sono stressati fino al midollo. Non hanno il tempo per andare al bagno ad orinare. Così affaticati, non c’è da stupirsi se faranno degli errori. Il medico di turno questa mattina non ha neanche pranzato, si è trattenuto oltre orario per servire una bimba sull'orlo dello svenimento dopo quattro ore che aspettava con un taglio al dito.

Il personale ospedaliero, quindi, altrettanto vittima di un “sistema” sbagliato, contaminato da certa politica e da certa comunicazione. E’ il sistema che sfugge alle colpe rimbalzandole da una testa all’altra, rimpolpa l’utenza di notizie scelte, sottrae all’agenda sociale ciò che gli è scomodo affrontare. I cittadini, dal canto loro, tollerano. Piangono lamenti soffusi, colpevoli per aver aspettato di sbatterci il muso, prima di interessarsi della situazione. E pur scottati dai disagi, troppi restano in silenzio, intrappolati nell’ignoranza e nella paura. Altri, stremati dal proprio sconforto e dalla delusione, non battono ciglio. E la situazione deteriora.

“Senza un parente che ti vien dietro e lotta per farsi intendere, sei spacciato qua dentro!”, ripetono tutti. La donna straordinaria che mi cuciva sciarpe di lana e cucinava torte alle mele è stata rannicchiata su una lettiga tutto il giorno, senza poterci vedere. Speriamo almeno che la portino in quella maledetta astanteria. Arrivano le sette, nessuna notizia. Non si riesce a sfogare la preoccupazione. Siamo troppo stanchi.

Domenica 22 marzo. Per la nonna è il terzo giorno di astanteria, limbo dove s’ammassano i pazienti nella vana speranza che si liberi un posto in reparto. La porta automatica fa corrente, la stanza è angusta e grigia, con tre letti appiccicati che rubano l’aria e la dignità. “Non si può lasciar morire in questo buco”, borbotto a mia madre, poi esco in cortile per piangere. Con tutto quel che soffre, ieri per giunta aveva il fondoschiena sanguinante: non ci sono i materassi anti-decupito in questo sgabuzzino da appestati. Al familiare che assiste il proprio caro per la notte viene fornita una sedia a sdraio, che a malapena s’incastra fra i letti; non ci sono coperte a sufficienza per tutti però, e bisogna arrangiarsi.

Sono passati venti giorni dall’ultima volta che la nonna è stata qui. Dopo due notti il medico l’aveva dimessa d’un tratto, con una centralina per flebo cucita sulla spalla e nessun avviso allo staff d’ambulanza o al nostro medico di famiglia su come gestirla. E’ la stessa centralina che stamattina si è bloccata, privando la nonna della sua terapia. Per cambiarla l’ospedale ha richiesto e ottenuto la nostra approvazione, ma l’anestesista era impegnato su un’altra urgenza e l’intervento si è potuto completare solo nel pomeriggio. Con gli avambracci distrutti non c’è verso di fare flebo senza centralina. Fortunatamente l’infermiera è riuscita a sbloccare quella vecchia verso fine mattinata, così da poter continuare la somministrazione dei farmaci e degli alimenti per l’unica via ormai percorribile, quella endovenosa.

Non mi do pace. La mancanza di letti in Geriatria o Medicina negli ospedali di Bussolengo, Negrar, Verona, Peschiera e la carenza di personale in servizio in diversi reparti sono problemi strutturali assodati. E ancora irrisolti? Dai fasti della Sanità alto-veronese degli anni sessanta, settanta e ottanta, si è approdati ad una strisciante regressione. Dopo l’abbattimento dei nosocomi periferici, è evidente che gli ospedali rimasti non sono stati potenziati a sufficienza per assorbire la domanda di cure. Mancano fondi, sperperati in passato? Rimbocchiamoci le maniche e facciamo voto d’efficienza: politici, dirigenti, ospedalieri, utenti. Tutti.

I cittadini anzitutto hanno il diritto sacrosanto e il dovere morale di partecipare alla pianificazione della Sanità locale e nazionale. Devono far sentire alla politica il fiato sul collo, per ammonirla quando sbaglia, per plaudire le buone soluzioni, perché interpreti con correttezza le nuove esigenze e assorba le proposte della cittadinanza. Al prossimo incontro pubblico, comizio elettorale o assemblea comunale, quanti ho sentito lamentarsi a bassa voce negli androni d’ospedale vadano e rivendichino i propri dubbi. Brontolare in una sala d’aspetto non porterà frutto, fermare un politico locale per strada e chiedergli ragguagli sì. Parlategli in italiano, fatelo in dialetto, non importa, ma lo si interroghi, lo si informi. Se risponderà male, s’eviti di votarlo alle prossime elezioni e si suggerisca di fare lo stesso a tutti i propri amici. Serve muoversi con lungimiranza, ben prima che venga intaccato il proprio orticello: perché non è pensando solo a sé e al proprio bisogno contingente che si vivrà bene in una collettività. Un pubblico addormentato e indifferente ha poca ragione di lamentarsi a posteriori. Basta far poco, ma fin d’ora e con costanza. “Ho dell’altro da fare durante il giorno” è la risposta, pur valida, di molti apatici. Non è una giustificazione sufficiente, però, per mancare di partecipare almeno un minimo alle sorti dei settori fondanti di una società.

I politici poi, anziché millantare traguardi dal vago sapore di diversivo, devono rispondere dei disagi e farsene carico, abbracciando per primi la causa dell’efficienza, sperimentandola sulla propria pelle. Non serve dire da dove cominciare. Ancora, è ipocrita limitare le comunicazioni istituzionali alle sole esperienze positive: è anche dei problemi che la cittadinanza vuol sentire parlare, e ancor più delle loro soluzioni. Bando alla demagogia, non quella presunta di cui le parti s’accusano vicendevolmente, ma quella bocciata dalla coscienza personale. I politici locali la smettano di rifugiarsi dietro ai confini ristretti delle proprie competenze amministrative, riconoscendo che il rappresentare una comunità comprende il portarne la voce ovunque serva farla sentire, fino a Venezia e fino a Roma, se necessario. Servite la comunità che vi ha dato fiducia, non il partito, qualunque esso sia. Gli amministratori regionali con delega alle politiche sanitarie sappiano gestire e ispirare le dirigenze sanitarie, garantire la pianificazione delle risorse e la loro corretta allocazione. I Governi nazionali, di qualsivoglia bandiera, s’adoperino per creare le condizioni di mantenimento e di sviluppo della buona Sanità sul territorio.

Al periodico “Obiettivo Sanità News” dell’Ulss 22 lancio un sincero je propose, affinché approfondisca con lucidità le motivazioni dei disagi subiti dall’utenza, a cominciare dalla carenza di posti letto sopra citata e dalla penuria di risorse umane in reparti come il Pronto soccorso di Bussolengo. Allo stesso approfondimento invito la politica tutta. Non mosso tanto dall’ira, che pure inizialmente ho provato, quanto da un impulso più solido. Cresce a dismisura mentre mi sforzo di reggere alla tristezza, davanti a mia nonna. Si chiama senso del dovere.

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