domenica 29 agosto 2010

AVETE DETTO "PADANIA"?



Scritto da Marcello de Angelis


Non se n’è accorto nessuno, ma a un certo punto, in un dì di giugno, c’è stato un dibattito culturale. Intendiamo uno vero, di quelli in cui si discute del significato delle parole, dell’origine delle identità, di storia, geografia e così via.
Ovviamente, come ormai ogni giorno accade, la cosa è stata presentata sotto altra forma, più immediata, più superficiale, più plateale, così da farne una notiziola da quotidiano.

Il presidente della Camera Gianfranco Fini ha detto che la Padania non esiste, che è un’immagine propagandistica senza alcun fondamento storico, etno-antropologico o altro.

Di per sé la cosa potrebbe essere considerata persino banale. Sicuramente nessun leghista crede veramente che esista o sia mai esistita una cosa che si chiama Padania, né che si tratti di un’identità nazionale o addirittura etnica. Molti leghisti, nel tempo, hanno imparato a trastullarsi con il mito di una cosa che non c’è mai stata ma che, sotto sotto, gli piacerebbe pensare che un giorno potrà esistere. Una sorta di Utòpia dove tutto è come dovrebbe essere: i treni arrivano in orario, nessuno ruba o truffa, non si parla ad alta voce (soprattutto al cinema) e non si buttano cose per strada. Nessun leghista piemontese ovviamente crede d’essere uguale a un lombardo (anzi, nessun milanese penserebbe mai di essere uguale a un brianzolo), anche perché molti degli uni - e degli altri - sono di fresca origine calabrese, pugliese e siciliana.

I leghisti, nel loro immaginario, pensano però che dopo un paio di generazioni passate al Nord, si diventi dei buoni lavoratori e in generale dei migliori cittadini, perché c’è una cultura diversa, più civica, più efficiente, meno “furba” e più onesta. E alcune di queste considerazioni sono - ahinoi - così vere, che piacerebbe a tutti che i leghisti, anziché pensare di privatizzare questi buoni esempi confinandoli in una porzione dell’Italia, s’impegnassero per farne la cultura diffusa di tutta la Penisola.

Noi che veniamo dalla cultura underground della destra post-sessantotto, sorridiamo forse più degli altri di questa vague mitologizzante degli amici nordisti, perché ci sentiamo anche un po’ responsabili. In Italia, a dirla tutta, siamo noi che, animati da creatività ed entusiasmo giovanile in un periodo in cui la cultura italica ci rigettava, andammo a cercarci ogni possibile aggancio a culture marginalizzate o scomparse per fabbricarci una identità nella quale sentirci più a casa nostra. E senza arrivare a considerarci ultimi superstiti di razze superiori venute dallo spazio (e per questo odiati e perseguitati fino allo sterminio), ci trastullavamo con le saghe (molti dicevano “seghe”) nordiche e simbologie celtiche. Chi conosce un po’ la storia politica, sa che a certi riferimenti i leghisti ci sono arrivati piuttosto di recente e con l’aiuto di persone brillanti che avevano transitato per la destra giovanile.

Negli anni Settanta - per prendere le distanze dal “ciarpame neofascista” - noi ci scoprimmo appassionati di Alan Stivell e della musica celtica e innalzammo sui nostri vessilli la croce anch’essa “celtica”. Al tempo, ci sembra di ricordare, Bossi era ancora sul comunista andante o giù di lì. Per quelle straordinarie frivolezze dell’Italietta social-comunista, la croce celtica finì per essere archiviata come «simbolo di violenza e odio razziale» per decreto ministeriale ed è piuttosto curioso, a ben pensarci, che oggi che il ministro dell’Interno è uno che di queste cose dovrebbe capirci un po’ di più, quell’ignobile demonizzazione del retaggio gallo-romano non sia stata cancellata restituendo a quel simbolo la nobiltà sacra e storica che gli appartiene. Anzi, forse proprio i suoi compagni che rivendicano sangue celta cispadano dovrebbero farglielo presente. Ancora negli anni Ottanta marciavamo al suono di musiche irlandesi e organizzavamo tour militanti in Irlanda a celebrare il martirio di Bobby Sands e la resistenza dei cattolici celti contro i protestanti sassoni e, tornati a casa, aprivamo pub dove si serviva Guinness.

Insomma, cari amici della Lega, ci siamo arrivati prima noi. Nelle case di alcuni di noi potrete trovare ancora arpe - e persino arpiste! - celtiche, cornamuse, libri sul druidismo, bandiere bretoni e scozzesi e scritte in gaelico.

Malgrado queste passioni però, questi simboli e questi miti, la preferenza per la birra e l’idromele e magari per il rugby (che i Celti comunque appresero dai legionari romani…) non abbiamo mai dimenticato quale fosse la nostra Nazione e non abbiamo mai ammainato il Tricolore. Anzi, alcuni di noi, morti prematuramente, ci si sono fatti seppellire dentro, come alcuni dei nostri padri, nonni e bisnonni.

Quindi, con affetto, vi diciamo: confrontiamo i nostri libri sulle radici celtiche che troviamo sia in Liguria che nelle Puglie (dove, forse lo ignorate, ci sono splendidi menhir), cerchiamo insieme le tracce di quei popoli che, già prima di Roma, confinavano con gli etruschi e con le colonie greche, facciamo a gara a chi scopre nei toponimi più origini celte, germaniche o greche. Scopriamo quanto di noi è normanno e spartano, gallo e saraceno e gonfiamoci il petto d’orgoglio, perché - lo sapete anche voi - siamo il miglior prodotto della storia e della provvidenza. Grazie a Dio siamo italiani.

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