lunedì 17 maggio 2010

Pdl da rifondare: di chi si fida il presidente Berlusconi







di Giovanni Fasanella

«Berlusconi tradito. Rifondiamo il Pdl». Il manifesto, senza firma, è apparso in molti quartieri di Roma la mattina di sabato 8 maggio. Nel testo non c’era alcun riferimento alla natura del tradimento. Ma non è difficile supporre che si riferisse allo strappo consumato dal presidente della Camera Gianfranco Fini il 22 aprile, quando nella direzione nazionale del partito ha annunciato la nascita di una corrente di minoranza. Un fatto traumatico per una formazione politica «anarchico-monarchica», secondo la definizione di Paolo Cirino Pomicino, l’ex democristiano che aveva seguito dall’inizio l’avventura di Forza Italia per poi distaccarsene in tempi recenti: un partito, cioè, dove «tutto ruota intorno alla figura del leader carismatico e assoluto, e privo di qualsiasi regola interna».
Di qui, dunque, la necessità di «rifondarlo». Concetto che Francesco Gironda, ex portavoce della Gladio, traduce così: «Per affrontare le difficili, future sfide di governo, Silvio Berlusconi ha la necessità di blindare il Pdl intorno alla sua leadership». Gironda, di estrazione repubblicana, è stato uno degli uomini chiave nella fase più delicata della storia del centrodestra, quella della costruzione di una nuova forza politica sulle macerie dei vecchi partiti anticomunisti della Prima repubblica. La sua casa editrice, la Bietti, fu il motore della rinascita della cultura liberaldemocratica in Forza Italia attraverso il contrasto sistematico della visione della storia del dopoguerra diffusa dagli ex comunisti, e in cui era prevalente la tendenza a criminalizzare l’anticomunismo democratico.

Oggi, pur avendo aderito al Pdl, Gironda è in una posizione sempre più defilata e critica nei confronti di Silvio Berlusconi: «Il rapporto del personale politico, anche di vertice, con il leader di partito» sostiene «rischia di assomigliare a quello che era in auge all’epoca delle Signorie, quando la sintesi decisionale era demandata alla sola autorità del Signore e il rapporto con lui consentiva senza alcun dubbio il suggerimento, ma non il confronto».

L’immagine parallela che Cirino Pomicino disegna è quella di un «leader indiscusso e potente, però solo», che sta incontrastato al centro della scena, «ma senza sapere mai fino in fondo di chi fidarsi davvero e di chi no».

È proprio così? Gli esperti di geografie politiche interne dei partiti e di posizionamento degli uomini di nomenklatura dopo il «tradimento» di Fini hanno parecchia materia su cui esercitare la loro arte. E provano a disegnare le nuove mappe del Pdl. Al centro, com’è ovvio, c’è il leader indiscusso, «un ruolo che nessuno gli ha regalato, ma che Berlusconi si è conquistato sul campo a suon di vittorie» puntualizza Fabrizio Cicchitto, presidente dei deputati del partito. E poi intorno a lui tutti gli altri: alcuni più vicini, altri più lontani, a seconda del grado di lealtà rispetto al capo attribuito a ognuno di loro.

Nella cerchia dei fedelissimi vengono annoverati innanzitutto gli uomini che gli stanno accanto a Palazzo Chigi, i due sottosegratari alla presidenza del Consiglio: il cardinalizio Gianni Letta, l’uomo delle relazioni istituzionali discrete, e il portavoce Paolo Bonaiuti. Poi i tre coordinatori del partito, Sandro Bondi, Denis Verdini e Ignazio La Russa, ognuno con un ruolo diverso. Il primo, anche nella veste di ministro per i Beni culturali, è il tramite con l’«intellighenzia», e ha il delicato compito di costruire una presenza in ambienti tradizionalmente egemonizzati dalla sinistra. Il secondo è il «selezionatore» del ceto parlamentare, l’uomo delle liste, insomma. E il terzo è l’ex di An che non ha seguito Fini nello strappo, e ora drena in quell’area i consensi per Berlusconi.

L’area dei fedelissimi e fedeli si estende fino ai due capigruppo parlamentari: Fabrizio Cicchitto, il presidente dei deputati, e Maurizio Gasparri, il presidente dei senatori.

Ma, per gli esperti cartografi del Pdl, qui finisce l’area dei fedelissimi e dei fedeli. E comincia quella più magmatica dei «malpancisti», che si estende silenziosamente verso la posizione dell’antagonista del leader, Fini. «Intendiamoci» tiene a precisare l’ex radicale Marco Taradash, consigliere regionale in Toscana, «nessuno mette in discussione Berlusconi, cui sono strettamente legate sia la storia di Forza Italia sia quella del Pdl. Ma il problema ora è come si ristruttura il berlusconismo: cioè, che cosa viene dopo…».

Già, che cosa viene dopo, quando il Cavaliere non sarà più al centro della scena politica? Qui, in quest’area di «malpancisti», molti si interrogano, dando per scontato che prima o poi l’evento si verificherà. Discretamente, ma inesorabilmente, uomini di estrazione liberaldemocratica come l’ex presidente del Senato Marcello Pera, l’ex ministro degli Esteri Antonio Martino, Egidio Sterpa, Alfredo Biondi e Benedetto Della Vedova sono in marcia verso il laico Fini. Quest’area si sta saldando con la componente repubblicana guidata dall’ex parlamentare Antonio Del Pennino, che non ha aderito al Pdl ma guarda con interesse, soprattutto sui temi etici, alle posizioni del presidente della Camera. Il quale ha aderito con entusiasmo all’invito a partecipare alla presentazione del libro scritto da Del Pennino, Di che vita morire?: il 28 aprile la Sala del Mappamondo di Montecitorio era stracolma di «laici» del Pdl e dintorni, accorsi ad ascoltare la sua voce.

E a Fini guardano, con curiosità alcuni e con interesse altri, anche molti esponenti dell’area ex democristiana. Come il ministro per l’Attuazione del programma Gianfranco Rotondi, ma senza esporsi troppo. Più esplicito, invece, è il flirt dell’ex ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu, ora presidente della commissione Antimafia. Nella riunione della direzione dove s’è consumato lo strappo di Fini, Pisanu non ha partecipato alla conta voluta da Berlusconi, astenendosi sul documento della maggioranza. Un segnale inequivocabile, in attesa proprio del «dopo».

«Il punto» insiste Taradash «è che non può essere lo stesso Berlusconi a definire i confini del berlusconismo». Tradotto, il concetto è che non può essere il capo a nominare dall’alto i dirigenti a tutti i livelli e che il Pdl dovrà diventare un partito «certamente diverso da quelli conosciuti nella Prima repubblica, ma pur sempre con struttura territoriale e precise regole di democrazia interna».

È questo il leitmotiv su cui insistono la minoranza finiana e l’area liberaldemocratica ed ex dc. Ma ovviamente i fedelissimi del leader non ci stanno. «Il Pdl» spiega il vicecapogruppo al Senato Gaetano Quagliariello «è nato per guidare il processo di evoluzione della “democrazia dei partiti” nella “democrazia degli elettori”, in cui il fulcro è il rapporto diretto del leader con l’opinione pubblica».

Già, insiste Cicchitto, «era chiaro sin dall’inizio che il Pdl nasceva come un partito a guida carismatica». Quagliariello e Cicchitto respingono l’accusa che il carisma del leader arrivi ad annulare il dibattito interno. Tanto che in almeno tre casi il partito ha assunto decisioni diverse dalle indicazioni del capo. È accaduto alle elezioni regionali. Quando il Pdl ha scelto l’alleanza a macchia di leopardo con l’Udc di Pier Ferdinando Casini, ha preferito Renata Polverini a Luisa Todini per la presidenza del Lazio e Rocco Palese ad Adriana Poli Bortone per quella della Puglia.

Certo, il leader carismatico è anche finito in minoranza. Solo tre volte, fino a oggi. Ma se in futuro dovesse accadere sempre più spesso, ecco pronto il ministro Giulio Tremonti: è il più defilato dei filoberlusconiani, strizza un occhio alla Lega e l’altro a Fini.

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