lunedì 25 ottobre 2010

Le dieci assurdità di Fini sull’aumento delle tasse









di Claudio Borghi

L'idea di alzare il prelievo sulle rendite è l'ultimo autogol del leader di Futuro e libertà. Colpisce le famiglie, fa fuggire i capitali all'estero e tradisce gli elettori

Ma che bella pensata! La prima proposta programmatica comprensibile a tutti di Fini è stata nientemeno che il raddoppio delle tasse sui risparmi, un livello addirittura superiore a quanto sognato in passato da Bertinotti. Fini non si è fatto quindi problemi a rinnegare un programma sulla base del quale è stato eletto e che aveva scritto in grosso e in rosso l’impegno a non alzare in nessun caso le tasse. Posto che la scusa di finanziare l’università è una foglia di fico - dato che i soldi non sono diversi - non si capisce perché, per reperire fondi, una tassa sui risparmi sarebbe meglio di, ad esempio, un taglio al suo stipendio o ad altri sprechi, ecco un piccolo promemoria dei motivi per cui quest’idea è dannosa, sbagliata e molto pericolosa.
1) I risparmi sono ciò che rimane da redditi già tassati. Non possono quindi essere messi sullo stesso piano degli altri guadagni.
2) L’interesse sui risparmi serve in gran parte a compensare l’inflazione. Se l’inflazione è il 2% e il rendimento dei Bot è l’1,5%, il risparmiatore ha in pratica perso soldi, non c’è nessun guadagno da tassare. Inoltre, gli investimenti si possono anche perdere, chiedere informazioni a chi aveva titoli Parmalat, Lehman, Cirio o, più semplicemente, a chi ha messo i propri risparmi in Borsa negli ultimi anni.
3) I beni accantonati delle famiglie sono una ricchezza dell’Italia e sono uno dei punti di forza che ci differenzia dagli altri Paesi, consentendoci una maggiore stabilità in periodi di crisi, nonostante le nostre debolezze profonde e strutturali. Criminalizzarli è come minacciare di bucare il salvagente che ci ha tenuto a galla.
4) Il denaro si può spostare con enorme velocità e semplicità. Se vi fossero proposte e timori sulle tassazioni, la conseguenza immediata sarebbe la fuga dei capitali (per i quali incertezza uguale pericolo) all’estero, così come avvenuto durante gli anni del governo di sinistra.
5) Non esiste nessuna «media europea» per i risparmi, dato che le aliquote, le esenzioni, le detrazioni e le franchigie sono del tutto diverse. In ogni caso, dato che il nostro Paese è meno affidabile politicamente e più a rischio degli altri (anche grazie a politici come Fini), in assenza di convenienza fiscale non si capisce perché uno dovrebbe lasciare i propri capitali depositati in Italia.
6) La tassazione sulle obbligazioni è una partita di giro per lo Stato (che pagherebbe interessi lordi più alti, riprendendoseli pari pari sotto forma di tassa), ma è un aggravio netto sulle obbligazioni societarie, gli emittenti delle quali dovrebbero pagare cedole lorde maggiori per offrire un rendimento netto accettabile senza potersi riprendere nulla. In un periodo dove le banche hanno stretto i rubinetti del credito, colpire l’emissione di titoli da parte delle imprese significa penalizzarle proprio nell’unico canale di finanziamento che si è rivelato efficace anche nei periodi peggiori della crisi e che ha salvato molte grandi aziende da conseguenze drammatiche.
7) I dividendi delle azioni vengono da utili rimanenti dopo una tassazione che è già fra le più penalizzanti in Europa. I guadagni da capitale, invece, sono un miraggio che, ai risparmiatori colpiti da ribassi epocali delle Borse e anni di rendimenti negativi dei fondi, suonerebbe come una beffa, mirata a colpire la speranza di un eventuale recupero dei prezzi dopo anni di sofferenza.
8) Gli italiani non sono obbligati a mettere i propri risparmi in titoli: è lo Stato che deve sperare caldamente che i cittadini gli usino la cortesia di finanziare il suo debito smisurato acquistando Bot e Btp. Inoltre, il risparmio dev’essere incoraggiato in quanto fonte di comportamenti virtuosi e autosufficienza famigliare. Se per un qualsiasi motivo il mettere da parte qualche soldo non dovesse essere più conveniente, un cittadino rimarrebbe comunque libero di andare a Parigi a spendersi la liquidazione in champagne e ballerine per poi tornare «da povero» e provare a chiedere un sussidio. Se il debito italiano non venisse più sottoscritto dai risparmiatori, addio stipendi, addio pensioni e (modesta consolazione) addio Fini.
9) La crisi ha comportato un aumento mondiale del debito pubblico: pertanto ci sarà sempre più competizione fra gli Stati sovrani per convincere i risparmiatori a sottoscrivere i propri titoli. Dato che il «porcellino salvadanaio» delle famiglie italiane fa gola a tutti e che una parte importante della nostra ricchezza è proprio reinvestita in Italia, gli unici che avrebbero da guadagnare se il nostro Paese diventasse meno accogliente per il risparmio sarebbero proprio gli altri Stati, pronti ad accogliere i denari in fuga con tappeti rossi e grandi risate indirizzate alla nostra stupidità. La sparata di Fini è in questo senso talmente dannosa per le nostre finanze che, se non dovesse derivare da errore, superficialità o faciloneria si potrebbe addirittura pensare che sia stata ispirata da qualche Stato estero, nel qual caso si tratterebbe di tradimento puro e semplice.
10) In regime di tassi bassissimi come l’attuale, a fronte dei danni di cui sopra, in ogni caso il gettito sarebbe minimo.
Ovviamente (sempre meglio specificarlo, non si sa mai) si suppone che l’ipotesi di aumento delle tasse si intenda sui titoli di nuova emissione, dato che, in caso contrario, sarebbe un rimangiarsi impegni dello Stato, analogo a un default. Ci sono in circolazione titoli anche trentennali venduti ai risparmiatori con la garanzia di una ben precisa tassazione. Nemmeno il governo Prodi aveva osato pensare di tassare lo stock di debito già emesso. Vorrebbe forse farlo Fini?

domenica 24 ottobre 2010

Nasce l’asse Fini-D’Alema per rovesciare Silvio



di Paolo Bracalini
Dopo lo stop del Colle, come due gemelli, il leader Fli e il notabile Pd si trovano d’accordo su molti punti a partire dalla giustizia. Il presidente della Camera: «No alla reiterabilità dello scudo. Il ribaltone? Se il governo cadesse sarebbe una fase nuova, non un golpe»


Roma «Il ribaltone? Non è un colpo di stato». Fini lo dice e D’Alema lo sottoscrive. A voler pensare male, gli ingredienti per una trappola a regola d’arte ci sono tutti. Il congegno è stato messo in moto dal rilievo di Napolitano, legittimo e sacrosanto (come si sono affrettati a commentare tutti, da sinistra a destra), sul testo del lodo Alfano. Improvvisamente, il quadro è cambiato, chiamando in scena due altri attori, con un copione in parte inatteso. Prima l’intervista a D’Alema, il gemello diverso di Fini, con l’appello alle forze responsabili di mettersi insieme per archiviare Berlusconi e formare un governo di coalizione. Quindi, l’ennesimo colpo alle spalle firmato dall’«alleato» Fini: «Su alcune leggi potremmo votare contro. E se ciò portasse alla caduta del governo, allora si aprirebbe una fase nuova». La prima occasione è proprio il lodo Alfano. La tattica è chiara. Gianfranco offre un accordo di massima sulla giustizia e poi affonda e svuota le parti fondamentali dello scudo. La parola d’ordine è: sfinire il Cavaliere fingendo di stringergli la mano.
E così, nel giro di pochi giorni, i finiani hanno compiuto una nuova giravolta, seguendo il senso tortuoso della tattica disegnata da Fini per ribaltare la maggioranza in Parlamento e saldando l’asse con il tattico del Pd, D’Alema. Il lodo retroattivo e reiterabile, votato così anche dai finiani, è così diventato un mostro giuridico, un obbrobrio da emendare al più presto. «Se la filosofia è tutelare la funzione quale che sia la persona - ha spiegato Fini - non credo che il Lodo possa essere reiterabile perché non sarebbe una tutela di una persona per un periodo di tempo, ma un privilegio garantito a una persona». Eppure, si chiedono nel Pdl, soltanto giovedì scorso la commissione Affari costituzionali aveva bocciato alcuni emendamenti dell'opposizione che proponevano, appunto, la non reiterabilità dello scudo giudiziario previsto dal Lodo Alfano. E con la maggioranza aveva votato anche il senatore Maurizio Saia, unico finiano a sedere nella prima commissione di Palazzo Madama.
E allora, cosa può essere cambiato in 72 ore, si chiede Osvaldo Napoli del Pdl. La domanda è retorica perché negli ultimi tre giorni qualcosa che può aver spinto Fini a insistere su quel punto è successo. Lo stop di Napolitano, appunto. Con il quale Fini, anche sfruttando la carica che ricopre, ha sempre cercato un rapporto privilegiato. Agli occhi dei falchi berlusconiani il tira e molla dei finiani, che prima collaborano al Lodo Alfano portandolo avanti nelle commissioni e votandolo insieme al Pdl, ma poi al minimo intoppo se ne chiamano fuori additandolo come una forzatura berlusconiana, appare come una tattica di puro logoramento. Se è questo lo spirito di collaborazione promesso da Fini per portare a termine la legislatura - ragionano nel Pdl - allora è meglio andare allo scontro.
Parlando Fini con «lingua biforcuta», per leggerne il pensiero conviene allora leggere quel che dice il suo alter ego del Pd, D’Alema, che ha un progetto identico a quello finiano («un governo con al più ampia base parlamentare possibile»), ma che a differenza del leader Fli può giocare a carte scoperte. Lo spettro di un governo tecnico, sostenuto da un qualche terzo polo, che cambi la legge elettorale (in chiara ottica anti-Cav) e poco altro. Il premier nuovo lo dovrebbe decidere il capo dello Stato, ed è per questo che ogni tensione tra Quirinale e maggioranza viene salutata con un brindisi dai terzopolisti. In primis Fini, solo per equivoco esponente dell’attuale maggioranza.

giovedì 21 ottobre 2010

Contro Fini i fan in rivolta: sei un quaquaraquà



di Francesco Cramer


Tanto ha soffiato sul fuoco dell’antiberlusconismo più feroce che alla fine Fini si è bruciato la faccia. Dopo il sì al lodo Alfano i dietrofront degli ex supporter: "Basta, me ne torno da Di Pietro". E i fan accusano il presidente della Camera: "Altro che libertà, siete 'futuro e retroattività'"



Roma - Tanto ha soffiato sul fuoco dell’antiberlusconismo più feroce che alla fine Fini si è bruciato la faccia. Sì perché le ultime mosse del suo Fli - via libera in commissione al Senato del lodo Alfano retroattivo e «no» alla richiesta di autorizzazione a procedere contro l’ex ministro dei Trasporti Pietro Lunardi - hanno scatenato il putiferio tra i suoi supporter. I quali hanno preso d’assalto il web e tolto la pelle ai finiani, nessuno escluso. La valanga di messaggi di «vergogna» non ha escluso nessuno: da Fini a Granata, passando per Bocchino e Filippo Rossi. Per mesi il presidente della Camera ha giocato a fare il neo Che Guevara capace di rovesciare la dittatura berlusconiana? Al primo sentore d’accordo con l’ex amico è partita l’accusa di collaborazionismo. Poi, vai a spiegare che in fondo anche in quel catino d’odio verso il premier che fu Mirabello Fini disse testuale: «Nessuno è contrario al lodo Alfano o al legittimo impedimento...». Tutto inutile. Il popolo finiano, sempre più viola, ha accusato il colpo e ora comincia a sbraitare: tradimento.
Sul sito di «Generazione Italia» si va dal «sono profondamente deluso, vi avrei dato il mio appoggio ma mi rendo conto che siete parte di una commedia» al «stamani alle 7 Bocchino era penoso». Un altro graffia: «Pubblicateli adesso i sondaggi di Crespi...». Mentre un altro smaschera la sua provenienza: «Dopo questa mossa torno da Di Pietro». C’è l’ira funesta di un (ex) simpatizzante: «Per quanto ancora vorrete continuare a sbandierare legalità e giustizia sociale per poi pulirvene il c. quando è ora di prendere decisioni? Fini lei è un qua-qua-ra-quà. Così come Granata (che stimavo) e l’italicoBocchino». E quella più fredda di un (ex) militante: «Questo tentativo di fingersi paladini della giustizia, mentre poi votate leggi vergognose sarà la tomba di questo partito». Uno la butta sull’ironia: «Fin quando Fli non tornerà sui suoi passi, nessuno si offenda se verrà usato l’appellativo “Futuro e Retroattività”. È più consono». Insomma, Fini ormai è ostaggio dell’antiberlusconismo militante.
Anche uno come Granata, comunque, non se la passa bene in queste ore. Sfiga ha voluto, poi, che proprio quando al Senato passava il lodo Alfano sul suo blog campeggiasse lo scritto dal titolo «La cosa giusta». Svolgimento: «Due elementi sono imprescindibili e rappresentano il vero perimetro pubblico e politico della nostra nuova impresa e dello stato nascente della nostra identità: la coerenza e l’esempio. La coerenza nei comportamenti parlamentari su “temi sensibili” come legalità e giustizia: quindi una chiusura netta a qualsiasi ulteriore legge ad personam...». Commenti dei militanti: «E come lo spiega il salvataggio di Lunardi di oggi? Ed essere favorevoli al lodo salvaberlusconi? Tante parole come tutti gli altri, ma siete solo dei paraculi... Se crede veramente in ciò che dice, per mantenere un minimo di dignità, se ne vada». Oppure: «Ma toglietela quella foto di Borsellino, dai... Non bestemmiare contro gli eroi morti». E ancora: «L’apertura di credito aperta nei confronti del Fli è già sepolta. Complimenti. Legalità, cosa giusta, coerenza: ma sapete di cosa parlate o blaterate a vanvera un tanto al chilo.

L’onorevole, spalle al muro, corre ai ripari con un altro scritto: «Bisogna riconoscere che opinione pubblica e gran parte dei nostri quadri e militanti sono disorientati. Ma se sul lodo la posizione di Fini è sempre stata favorevole... il voto su Lunardi è stato un grave errore politico... Auspico un ritorno degli atti in Aula, per votare compatti a favore dell’autorizzazione a procedere contro l’ex ministro Lunardi». E poi: «Una cosa è certa: da oggi dovrà discutersi ogni posizione e ogni voto d’aula per evitare che, nella distrazione in buona fede di alcuni, prenda il sopravvento il partito trasversale della conservazione». Ah sì? Ecco come risponde un militante: «La vera ragione della nascita di Fli era la voglia di Fini di comandare, di essere il numero 1, di avere il suo partitino con le sue truppe... Mi spieghi: tra le “distrazioni in buona fede di alcuni” c’è l’adesione di Catone, che per lei è meglio della Sbai, di Cuffaro persona diversa, di mister centomila preferenze, gli appalti alla suocera, Bocchino e Rai Cinema, l’appartamento a Montecarlo. E quante distrazioni, però!».
Ecco: non solo i casi Alfano e Lunardi. Un (ex) simpatizzante mette il dito nella piaga su altri temi sensibili in casa Fli: «Onorevole Granata, nella mia regione, l’Abruzzo, Fini ha da poche ore nominato l’onorevole Giampiero Catone nel ruolo di coordinatore regionale del comitato costituente del Fli. Proprio in questi minuti si stanno dimettendo tutti coloro che si sono spesi in questi ultimi mesi per il nostro movimento e futuro partito. Per favore intervenga al più presto per far tornare il presidente sui suoi passi, dopo l’evidente errore in cui è ingenuamente caduto. Il mio è un grido disperato e non devo certo spiegarle il motivo...».

lunedì 18 ottobre 2010

Il Secolo d'Italia si vergogna di essere di Destra


L'ex foglio fascista si vergogna di essere di destra
di Redazione

Gianfranco Fini ha una fortuna: che il suo giornale, il Secolo d’Ita­lia, lo leggono ormai solo Flavia Perina e i suoi parenti stretti, men­tre il sito di Farefuturo è visitato forse dai Briguglio e dai Raisi, per­ché già Granata e Bocchino han­no di meglio da fare. E deve davve­ro ringraziare il cielo che questa sia la situazione. Perché se i suoi potenziali elettori venissero a sa­pere quel che scrivono i maître à penser di Futuro e libertà, le sue già esigue speranze di raccoglie­re abbastanza voti da superare lo sbarramento del 4 per cento fra­nerebbero miseramente. Nell’ansia di distinguersi dagli aborriti «alleati» del centrodestra, i giornalisti futuribili si sono infatti spinti tanto lontano da scavalcare a sinistra la quasi totalità degli organi di stampa italiani. E dopo aver proposto cittadinanza breve e Corano a scuola, aver incensato Antonio Padellaro, Alberto Asor Rosa e Michele Santoro, ed essersi schierati con la Fiom contro il ministro Maroni, hanno finito la loro corsa in ginocchio da Eugenio Scalfari, celebrato come il loro faro editoriale in cambio di un paio di sputi sull’odiato Giornale . E così Barbapapà, in una intervista scendiletto di due pagine sul Secolo di ieri, ha potuto dire - tra gli applausi dei redattori ex fascisti - che la Repubblica è un giornale e fa giornalismo mentre il Giornale è un libello che lancia segnali mafiosi. Ma ancora niente a confronto di quel che ha vergato due pagine prima Filippo Rossi, uno dei reggipenna preferiti di Fini (forse ce l’avete presente: è quel signore grande e grosso che quasi tutti i giorni bofonchia qualcosa in tv). Il direttore di Farefuturo , uno che il ridicolo non sa neppure dove stia di casa, ha riempito di impervia prosa altre due pagine allo scopo di paragonarsi a Montanelli, Longanesi e Pannunzio e di esprimere tutto il suo disgusto per quel che combiniamo qui in via Negri. Dove, pensate un po’, abbiamo il cattivo gusto di fare un quotidiano che interessi un po’ di gente e venda un po’ di copie. Volgari. Dovremmo invece fare come lui, che viene letto da quattro gatti. Ma quelli giusti. Quelli dei salotti di sinistra che poi parlano così bene di lui, della Perina e di Fini e li fanno sentire tanto «in», ripuliti da quella patina di destra che dispiace alla gente che piace. Al dunque, è chiaro, i progressisti daranno il voto al Pd, ai comunisti, al massimo a Di Pietro, mica alle brutte copie finiane. Ma fino al momento di fare i conti con la dura realtà, gli scribi di Gianfri vogliono continuare a fare i saltimbanchi per raccogliere l’applauso di Repubblica.

sabato 16 ottobre 2010

In Piemonte il ribaltone anti Cota è già scritto



di Paola Setti


Il Pd vuol riprendersi in tribunale la Regione che ha perso alle urne. Il Tar dà una mano: i criteri di riconteggio delle schede aiutano la Bresso. Pdl e Lega: "Per votare lei bastava una croce, per votare noi ne servono due". Nonostante una sentenza che sconfessa i giudici

«Possiamo chiamarla presidente?» domandava ieri un divertito Claudio Sabelli Fioretti durante Un giorno da pecora. Risposta di una gongolante Mercedes Bresso: «Eh, così a naso...». Non che serva grande fiuto. Perché il riconteggio dei voti delle Regionali in Piemonte ancora non è finito, manca la Provincia di Torino e infatti ieri il Tar ha rinviato di 25 giorni la scadenza. Intanto però nessuno ha dubbi: a meno che il Consiglio di Stato non fermi l’infernale ingranaggio, l’ex governatrice Pd vincerà la partita contro Roberto Cota. Aveva vinto lui, alle urne, con 9372 voti in più. Fra 25 giorni avrà perso, nell’aula di un tribunale, con 15mila voti in meno, o giù di lì.
Ci sono delle certezze, perché, dicono tutti, dal centrodestra ai funzionari della Regione passando persino a una parte del Pd, questa è la storia di un ribaltone già scritto, perché no, la Lega che s’è presa il Piemonte, portandolo a casa del centrodestra, signore e signori non è cosa. La Bresso che, non prima del voto, ma solo dopo aver perso, fa ricorso contro due liste, Consumatori e Al centro con Scanderebech collegate all’avversario leghista. Il Tar che giudica illegittimo ciò che pure i giudici elettorali avevano ammesso, e decide il riconteggio dei voti. Il riconteggio che prende il via, ma con criteri che, denuncia l’avvocato Luca Procacci, legale del governatore in quanto legale della Regione, favoriscono la Bresso. «Per votare la Bresso basta una croce. Per Cota, che evidentemente non doveva vincere, ce ne vogliono due», riassumevano ieri i capigruppo di Pdl e Lega, Luca Pedrale e Mario Carossa. «Vogliono annullare voti validi» tuonava il giorno prima Umberto Bossi. Perché nel ricontare i circa 15mila voti delle liste contestate, i giudici amministrativi hanno deciso di considerare valide soltanto le schede con la doppia croce, una alla lista e una al presidente. Risultato: annullate l’80 per cento delle schede. «Eppure è evidente che, votando una lista collegata al presidente, l’elettore voleva votare anche il presidente» lamenta da mesi il centrodestra. Dice Procacci: «Solo un elettore su quattro ha fatto la doppia croce, per paura di annullare la scheda». Tant’è.
La speranza, spiega il legale, è che il Consiglio di Stato giudichi illegittimo il riconteggio. L’udienza è fissata al 19 ottobre, martedì. Procacci è fiducioso: «Perché vede, c’è già un pronunciamento precedente su una questione identica relativa a un sindaco, io non credo che i giudici potranno fa finta di niente». In effetti la sentenza del consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana del 21 luglio 2008 parla chiaro. Cita il principio «del favor voti per cui deve essere dato ogni possibile rilievo alla volontà espressa dall’elettore», e stabilisce che «l’eventuale invalidità del voto di lista (per erronea ammissione di essa) non può inficiare la validità dell’altro voto espresso dall’elettore per la scelta del candidato». E questo sia che il voto sia stato espresso con «doppio segno grafico», sia «con un unico segno sul simbolo di una lista che estende normativamente il voto anche al candidato Sindaco con essa collegato». Del resto esiste la possibilità del voto disgiunto. Quindi: «A prescindere dal numero di voti di lista invalidi perché espressi in favore di liste illegittimamente ammesse, il numero di voti ottenuti dai candidati a sindaco resta invariato».
Ieri lo staff di Cota ha scelto un’immagine macabra per rendere il clima: «È come se avessimo trovato un cadavere e ci avessero risposto: spiacenti, ma ne stiamo cercando uno diverso». Perché, conferma Procacci: «A Torino molti scatoloni non avevano il nastro originale, a Biella è scomparsa la sezione di Vigliano Biellese e lo stesso si è verificato ad Alessandria, il che magari non significa nulla, ma un po’ inquietante lo è». Questo per dirla in modo diplomatico, perché per dirla con Pedrale e Carossa: «L’unica cosa che questo inutile riconteggio dimostra è che Cota ha vinto le elezioni con uno scarto ancora maggiore, perché si sono scoperti moltissimi voti che non gli sono stati attribuiti».
Se il riconteggio sarà favorevole alla Bresso, il Tar a metà novermbre potrebbe decidere sia di proclamarla vincitrice, sia nuove elezioni. A questo punto il governatore leghista impugnerebbe la decisione del Tar, scatenando il controricorso del controricorso della Bresso. Diceva Bossi: «Se vogliono far perdere Cota si mette male la democrazia».

sabato 9 ottobre 2010

la Repubblica - Nel mirino dei pm e del Fisco 17 conti «segreti» di Marcegaglia






di Emilio Randacio e Walter Galbiati

Diciassette conti congelati, da «porre in collegamento con le dichiarazioni rese da Marcegaglia Antonio». È il Ministero pubblico della Confederazione elvetica, con una missiva spedita la scorsa settimana all’ufficio del procuratore aggiunto di Milano, Francesco Greco, a rialzare il sipario sui conti esteri della famiglia Marcegaglia. Una parte dei quali - quattro per la precisione - erano già stati scandagliati durante l’inchiesta Enipower, una storia di tangenti pagate per accaparrarsi commesse milionarie e che ha visto tra i numerosi protagonisti anche il rampollo della famiglia industriale mantovana. A marzo 2008 il figlio del fondatore del colosso dell’acciaio ha patteggiato una pena (sospesa) di 11 mesi per corruzione. E ha pagato oltre 6 milioni di euro.
Gli inquirenti svizzeri vogliono ora capire cosa fare di quei rapporti bancari, conti da paperoni intestati anche a Steno ed Emma Marcegaglia - presidente di Confindustria - gestiti da Antonio, e finiti nel frattempo sotto la lente dell’Agenzia delle Entrate di Mantova per verificare eventuali reati fiscali. Ma di che conti si tratta?
Per una decina d’anni, tra il 1994 e il 2004, il gruppo Marcegaglia era riuscito a interporre negli acquisti di materie prime e di macchinari alcune società offshore, in modo da creare fondi neri da depositare su conti esteri. Il meccanismo, noto a tutta la famiglia, era semplice: la Marcegaglia Spa non comprava direttamente l’acciaio, ma lo rilevava da alcune società di trading incaricate di riversare i margini di guadagno su appositi conti cifrati. Una di queste, la londinese Steel Trading, operava attraverso il conto Q5812712 presso la Ubs di Lugano. Le plusvalenze milionarie venivano poi trasferite sul conto Q5812710 aperto sempre presso la stessa banca svizzera e intestato a una società delle Bahamas, la Lundberg Trading. Il beneficiario finale dei conti era Steno Marcegaglia, padre e fondatore dell’omonima azienda.
Lo stesso meccanismo funzionava per altri due conti svizzeri, intestati a Steno e alla figlia Emma. La Scad Company Ltd che gestiva le vendite dell’acciaieria bulgara Kremikovtzi, versava in nero le differenze di prezzo della materia prima e i frutti economici di eventuali contestazioni favorevoli ai Marcegaglia sul conto cifrato 688342 della Ubs di Lugano. La Springleaf Capital Holding, la Cameo International e la Macsteel International Uk Ltd facevano le medesime operazioni per alcune acciaierie indiane. E sullo stesso conto cifrato della famiglia sono stati convogliati anche i proventi di due vendite in nero: il 31 gennaio 2004 un cliente iraniano ha versato 150mila euro per l’acquisto di un macchinario e ad aprile 2004 un cliente argentino altri 44mila euro per alcuni pezzi di ricambio venduti dalla Marcegaglia Spa. Tutte le provviste accumulate sul conto 688342, oltre un milione di dollari in poco più di un anno, sono state poi riversate sul conto cifrato 688340 della Ubs di Lugano, anch’esso riconducibile a Steno ed Emma. Complessivamente, i soldi transitati sui quattro conti sono nell’ordine di diversi milioni. Quando ad agosto 2004 sono stati chiusi i rapporti bancari della Steel Trading e della Lundberg, il saldo era di 22 milioni, un importo che la famiglia ha provveduto a trasferire a Singapore, prima dell’arrivo della magistratura.
«Si tratta di questioni legate a una società che all’epoca ha svolto una effettiva attività di trading di acciaio esclusivamente a prezzi di mercato, pagando regolarmente le tasse nel Paese di competenza. Società che, peraltro, ha già cessato da molti anni ogni sua attività», spiegano fonti ufficiali del gruppo Marcegaglia

Ora tutta la documentazione dei conti analizzati dalla procura di Milano è nelle mani del nucleo tributario della Guardia di finanza e della Agenzia delle Entrate di Mantova per verificare possibili reati fiscali, soprattutto connessi a compravendite in nero e a eventuali false fatturazioni. Mentre l’Autorità giudiziaria elvetica si trova con un elenco di conti sui quali sono transitati i frutti milionari del trading dell’acciaio e aspetta indicazioni dalla procura di Milano. Era stato Antonio Marcegaglia, nella ricostruzione davanti ai pm, ad alzare il velo su altri rapporti cifrati e a spiegare come venivano utilizzati quei fondi: si tratta di «risorse riservate - aveva messo a verbale il 30 novembre 2004 - che abbiamo sempre utilizzato nell’interesse del gruppo per le sue esigenze non documentabili». Con quei soldi venivano pagati estero su estero i bonus per i manager che lavorano al di fuori dell’Italia, come quelli che gestivano i rapporti con i trader russi e con i Paesi arabi, destinatari di commissioni e provvigioni per migliaia di dollari. «Per tutte le esigenze di questo tipo che avevo a Mantova - spiegava ancora Antonio Marcegaglia - mi facevo consegnare presso il mio ufficio il denaro che occorreva per pagare fuori busta dirigenti, collaboratori ed altro». A volte i contanti servivano per acquistare beni, come una Mercedes o un casale in Toscana. «Il patrimonio familiare - precisa oggi il gruppo Marcegaglia - si trova per la sua stragrande maggioranza in Italia, mentre una sua minima parte è all’estero e comunque in regola con le normative fiscali italiane».
Dall’estero, i soldi della famiglia arrivavano in Italia grazie a un vero e proprio servizio di «spallonaggio» che la Ubs offriva chiedendo una percentuale dell’1%. I conti d’appoggio li forniva sempre la banca elvetica. Dal rapporto cifrato 688340 intestato a Steno ed Emma Marcegaglia, per esempio, tra settembre e dicembre 2003, sono stati trasferiti sul conto della Preziofin Sa presso la Ubs di Chiasso oltre 750mila euro per essere poi prelevati in contanti e portati in Italia. Qualcosa come 3 milioni di euro più circa 800mila dollari sono stati trasformati in denaro sonante tra il 2001 e il 2003 dal conto cifrato 664807 aperto nella filiale Ubs di Lugano. Allo stesso servizio obbedivano i conti 614238 presso la Ubs di Chiasso e il conto intestato alla Benfleet presso la filiale di Lugano.
Un altro conto d’appoggio e riconducibile ad Antonio Marcegaglia è il conto «Tubo». Qui per esempio nel ’97 sono stati versati dal conto Lundberg 1,6 milioni di dollari per pagare parte dell’acquisto dello stabilimento di San Giorgio di Nogaro. E, secondo la ricostruzione del rampollo di casa Marcegaglia, anche i versamenti effettuati sui conti «Verticale», «Vigoroso», «Borghetto» e «Diametro» (poco più di 2 milioni di euro) non sono altro che pagamenti in nero, l’ultimo dei quali a maggio 2003, destinati alla Mair Spa di Thiene per l’acquisto senza fattura di un macchinario per la fabbricazione di tubi.
Ininterrottamente poi dal ’97 al 2004 è stato alimentato un conto cifrato (JC 251871) presso la Ubs di Lugano: 175 milioni di lire l’anno, finché era in voga il vecchio conio, e 90mila euro l’anno con l’avvento della moneta unica. «Trattasi di pagamenti in nero a favore dello Studio Mercanti di Mantova in relazione a consulenze di tipo amministrativo», ha dichiarato Antonio Marcegaglia. Lucio Mercanti è il presidente del collegio sindacale del gruppo mantovano, proprio colui che è preposto a vigilare sui bilanci della società.

Una brutta faccenda



Veramente una brutta faccenda, una losca storia di intrighi, poteri oscuri che si intrecciano fra loro in maniera talmente fitta da non farne intravedere neanche l’inizio, intercettazioni ed intercettati, insomma un parapiglia che sta sempre più degenerando.
A pochi giorni dal tentativo di omicidio del Direttore di Libero Dott. Maurizio Belpietro e le minacce che lo stesso Direttore ha ricevuto, ecco la perquisizione nella sede de “IL GIORNALE”. Che strano, non trovate? Tutto questo nel giro di pochi giorni, come se dietro ci fosse una sorta di progetto il cui unico obiettivo è accecare e silenziare chi non la pensa come la stragrande maggioranza dei media e della carta stampata.
Quando l’Unità è stata querelata per tutto il fango gettato addosso a Berlusconi, quando Repubblica viene messa all’indice per la persecuzione mediatica di 90 giorni consecutivi contro il Presidente del Consiglio, sono scesi tutti in piazza per manifestare sulla violazione della libertà di stampa. Hanno manifestato il sindacato dei giornalisti, i partiti politici del centro sinistra, le sigle sindacali unitarie, i no global. Ci mancava l’arcigay e saremmo stati al completo!
In questo caso invece, a parte gli attestati di stima e vicinanza (attestati falsi e di facciata), nulla si è detto e nulla si è fatto. Se non fosse che il Direttore di Libero e il Giornale sono conosciuti, tutto sarebbe passato senza neanche una parola.


E’ la libertà di stampa dove la mettiamo? Libero ed Il Giornale non sono testate giornalistiche alla pari dell’Unità e di Repubblica? Oppure sono da considerare giornali (e giornalisti) di seconda fascia?
Eppure anche questo è un tentativo di ridurre al silenzio la libertà di stampa, anche questo è un becero tentativo di imporre un manto nero al giornalismo, anche questo dovrebbe far scattare l’impulso di scendere in piazza a protestare.
Invece nulla, silenzio, gettato nel dimenticatoio.
Si, è proprio una brutta faccenda che non può e non deve passare inosservata, altrimenti rischiamo di cadere in un buco ancora più profondo di quello in cui siamo cascati da 20 anni a questa parte.
Se si incomincia a chiudere un occhio su certi gravi fatti, poi si corre il pericolo di chiuderli tutti e due su altri e magari si fa come le tre scimmiette “Non vedo, Non sento, Non parlo”!
D’altra parte siamo in Italia, mica in America …. O no?
Giacomo Bianchi

giovedì 7 ottobre 2010

Gelmini: «Inaccettabili le parole di Moffa, nelle università non si insegni l'odio»




Il ministro dell'Istruzione attacca le lezioni negazioniste del professore dell'Università di Teramo

MILANO - «Le parole pronunciate sono inaccettabili, offendono profondamente la memoria degli ebrei morti nelle camere a gas. Non è possibile che nelle università italiane insegnino professori che seminano odio». Così il ministro dell'Istruzione, Mariastella Gelmini, in una dichiarazione al Tg5, ha commentato la lezione sul revisionismo e la negazione della Shoah tenuta dal professor Claudio Moffa, ordinario di Scienze Politiche all'Università di Teramo.

LA TESI NEGAZIONISTA - «Non c'è alcun documento di Hitler che dicesse di sterminare tutti gli ebrei» ha detto Moffa, lo stesso docente. Ed è subito polemica, come nel 2007, quando Moffa invitò all'università, nell'ambito dello stesso master, lo storico negazionista francese Robert Faurisson per un incontro con gli studenti, che non si svolse per la decisione dell'ateneo di chiudere il Campus per motivi di ordine pubblico. Anche oggi le posizioni negazioniste del docente scatenano la reazione del mondo politico. «Qui non c'entra niente la libertà di espressione - spiega l'ex ministro dell'Università Fabio Mussi - c'entra l'odio razziale e l'apologia del nazismo che fino a prova contraria sono reati». Sempre al ministro Gelmini si rivolgono i senatori del Pdl Ombretta Colli, e dell'Idv Alfondo Mascitelli, che chiedono di intervenire al più presto per rimuovere il professore.

mercoledì 6 ottobre 2010

Burqa e niqab, verso la legge per vietarli



Governo: «Ma senza mai citare l'Islam»

il parere dell'esecutivo inviato alla commissione Affari costituzionali della Camera che esamina le proposte di legge



ROMA (6 ottobre) - Più vicina la legge per vietare il burqa ed il niqab in Italia. Ma senza fare riferimento all'Islam, considerato che indossare il velo integrale non è un obbligo religioso. Non c'è infatti traccia di ciò nel Corano. Questo il parere che il governo ha inviato alla commissione Affari costituzionali della Camera che sta esaminando le proposte di legge in materia. Il documento, illustrato dal sottosegretario all'Interno, Alfredo Mantovano, è quello proposto dal Comitato per l'Islam italiano istituito presso il Viminale.

Le proposte all'esame della Camera puntano a modificare l'articolo 5 della legge 152 del 1975 che vieta l'uso di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in un luogo pubblico, senza giustificato motivo. Diversi di questi testi introducono tra i mezzi soggetti al divieto, «gli indumenti femminili in uso presso le donne di religione islamica denominati burqa e niqab». Una formulazione che non piace al Comitato composto da esperti di islam, perché ritenuta inesatta e a rischio di alimentare polemiche. Il parere, fatto proprio dal governo, ricorda infatti che l'uso del niqab (indumento che copre il capo e buona parte del busto lasciando scoperti soltanto gli occhi) e del burqa (che copre tutto il corpo compresi gli occhi) non ha un'origine coranica. Indumenti simili sono stati usati in diverse zone in epoca romana, bizantina, persiana. Portarli non è dunque «un obbligo religioso». Non c'è un «nesso causale» tra burqa e niqab da una parte e religione islamica dall'altro.

La legge in materia dovrà quindi, secondo il governo, tenere prioritariamente in conto «la considerazione di ordine pubblico secondo cui persone travisate in modo da non essere riconoscibili non possono essere identificate dalle forze dell'ordine, individuate dai conoscenti e, se del caso, descritte dai testimoni. La riconoscibilità delle persone deve essere garantita, tanto più a fronte del rischio internazionale collegato al terrorismo». Il documento raccomanda però di «omettere dai testi di legge ogni riferimento alla religione o all'islam, limitandosi alla formulazione secondo cui nel divieto devono intendersi ricompresi "gli indumenti denominati burqa e niqab", prescindendo dalle motivazioni che spingono le persone ad indossarli». L'obiettivo, si sottolinea, è quello di «deconfessionalizzare» la legge per non alimentare polemiche. Il parere suggerisce inoltre di modificare parallelamente l'articolo 85 del Testo unico di pubblico sicurezza con il riferimento ad un divieto incondizionato all'uso in luogo pubblico «di qualunque mezzo o indumento atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona»; inserendo quindi una norma per cui «l'autorità locale di pubblica sicurezza può con apposito manifesto prevedere deroghe al divieto», il che consentirebbe di autorizzare, ad esempio, l'uso del burqa o del niqab nelle moschee.

sabato 2 ottobre 2010

«Ci rubano lavoro». L'offesa svizzera con quel topo anti italiano




Transfrontalieri rappresentati da tre ratti. Uno si chiama Giulio e ha uno scudo con tre monti


I cartelloni anti italiani
«Noi lombardi e voi ticinesi parliamo la stessa lingua. Tutti e due diciamo "va' a da' via 'l cul!"», tuonò allegro l'allora sindaco leghista di Milano Marco Formentini in «visita ufficiale» ai «cugini». Cugini? Dipende. E lo dimostra l'infame campagna contro i «ratti» italiani lanciata contro i nostri frontalieri. È da un pezzo che la Lega ticinese, per bocca del suo leader Giuliano Bignasca (dimentico di essere stato condannato nel '93 dalla Corte di Lugano per aver impiegato una dozzina di operai jugoslavi senza permesso di lavoro) insiste nella stessa accusa: i lavoratori comaschi, varesini, verbanesi «rubano il lavoro agli svizzeri». Un'ossessione. Che ha spinto La Provincia di Como, che pure sinistrorsa non è, a titolare: «C'è sempre un leghista più a nord di noi».


Un'accusa vecchia. Basti ricordare quanto scriveva James Schwarzenbach, che scatenò tre referendum (e nel primo sfiorò la vittoria) contro i nostri immigrati e in particolare le loro mogli e i loro bambini: «Sono braccia morte che pesano sulle nostre spalle. (...) Dobbiamo liberarci del fardello. Dobbiamo, soprattutto, respingere dalla nostra comunità quegli immigrati che abbiamo chiamato per i lavori più umili e che nel giro di pochi anni, o di una generazione, dopo il primo smarrimento, si guardano attorno e migliorano la loro posizione sociale. Scalano i posti più comodi, studiano, s'ingegnano: mettono addirittura in crisi la tranquillità dell'operaio svizzero medio, che resta inchiodato al suo sgabello con davanti, magari in poltrona, l'ex guitto italiano».


Per questo sono più indecenti, quei ratti usati contro i frontalieri. Perché arrivano nella scia di una via crucis segnata da tappe di indicibile dolore. La spedizione punitiva di squadracce armate che a Goeschenen nel 1875 spararono uccidendo sugli operai che costruivano il tunnel del San Gottardo e si erano ribellati alla morte dell'ultimo di 144 compagni ammazzati dalle esplosioni di dinamite, dai crolli, dalle fughe di gas... E poi giorni di caccia all'italiano nel 1896 a Zurigo, quando le autorità dovettero organizzare treni speciali per rimpatriare i nostri, terrorizzati. E la chiusura della sala d'aspetto di III classe della stazione di Basilea agli «zingari d'Italia» in transito, in larga parte piemontesi, lombardi, veneti. E la scandalosa sentenza d'assoluzione per la strage di Mattmark. E l'uccisione per motivi razziali di poveretti come Vincenzo Rossi (buttato dal padrone in un altoforno), Attilio Tonola o Alfredo Zardini, ammazzato a pugni e calci da un razzista che fu condannato nel 1974 a 18 mesi.

Certo, la nostra storia in Svizzera non può essere ridotta solo a questo. Tantissimi italiani, sia pure spesso dopo grandi sofferenze, sono riusciti a integrarsi benissimo. A guadagnarsi la stima, l'amicizia, l'amore dei nostri vicini. E sarebbe ingiusto non ricordare, con le cose che ci hanno dato dolore (ad esempio il rifiuto della cittadinanza ancora nel 2004 ad Armando e Giuseppina Colatrella, che arrivarono nella zona di Lucerna nel 1960 e da mezzo secolo lì lavorano e pagano le tasse) anche tutte le cose positive, molto positive, che hanno segnato i nostri rapporti.


Ma proprio perché accanto alle luci ci sono state ombre, è inaccettabile la campagna partita su Internet (ma già pronta a finire sui muri di tutto il Ticino) con tre topastri presentati ciascuno con una piccola scheda. Il primo chiamato Fabrizio, piastrellista, di Verbania. Il secondo Bogdan, rumeno, sfaccendato. Il terzo Giulio, italiano, avvocato, e per non lasciare dubbi sul cognome, dotato di uno scudo con tre monti. Eccoli, i nuovi nemici del benessere svizzero: il frontaliero italiano, il vagabondo rumeno, il ministro delle finanze di Berlusconi, reo di aver varato lo scudo fiscale che avrebbe danneggiato le banche elvetiche. Titolo della campagna: «Bala i ratt...». Cioè: ballano i topi...
Sono mesi che La Provincia di Como pubblica paginate sui timori dei circa 50mila italiani che ogni giorno attraversano la frontiera per lavorare in Svizzera, dove certo non avrebbero potuto inserirsi in questi anni se non ci fosse stato bisogno di loro. Un titolo? «Lega contro frontalieri: "Ci rubano il lavoro"». Un altro? «Stretta in Ticino: "basta infermieri dal Comasco"». La campagna coi topi sul sito www.balairatt.ch va però oltre. E supera perfino i manifesti con le pecore bianche che scalciano fuori dalla Svizzera una pecorella nera presentati dalla Svp (Udc nei cantoni francese e italiano) di Christoph Blocher, noto per aver detto che l'articolo 261 bis del Codice penale svizzero che punisce la discriminazione razziale e chi nega l'Olocausto gli fa «venire il mal di pancia».


E se i leghisti ticinesi, per ora, si chiamano fuori da questa forzatura, ci sono deputati cantonali come Pierre Rusconi che non solo sono d'accordo ma si augurano che sia questo il tema della prossima campagna elettorale. Marco Zacchera, deputato del Pdl e sindaco di Verbania, ha già presentato un'interrogazione parlamentare: non ritiene il governo «che questa campagna abbia schietta impronta demagogica e anche razzista e sia in netto contrasto con gli accordi vigenti italo-svizzeri»?


Ultima annotazione: Michel Ferrise, l'ideatore della campagna, ha detto che l'anonimo committente gli aveva «chiesto di trovare un'idea originale che portasse i ticinesi ad aprire gli occhi su determinate questioni» e che aveva scelto i ratti perché «il ratto è qualcosa di spregevole» e contiene «il concetto di "derattizzazione"». Che sia razzista, non c'è dubbio. Originale no. Lo dice una vignetta pubblicata un secolo fa dalla rivista americana Judge in cui il vecchio zio Sam assiste corrucciato allo sbarco, da una nave proveniente «direttamente dalle topaie dell'Europa», di migliaia di topi di fogna coi baffi alla figaro che hanno scritto sui cappelli o sul coltello che reggono tra i denti: «Mafia», «Anarchia», «Assassinio»...
È passato un secolo, e noi italiani, grazie a quelli come il signor Ferrise e i suoi committenti, siamo alle prese ancora con le stesse porcherie...

Gian Antonio Stella