martedì 31 agosto 2010

ANCORA UNA VOLTA.....





Ancora una volta l’Italia si divide sulla questione di politica estera.
Alcuni considerano l’art. 11 della Costituzione, in base al quale l’Italia ripudia la guerra quale mezzo per la risoluzione delle controversie internazionali, un pretesto per dichiararsi contrari a qualsiasi intervento bellico a fianco degli U.S.A. contro quegli Stati che danno sostegno al terrorismo.
Altri invece, considerano l’art.5 del trattato istitutivo N.A.T.O. per sostenere che vi sia un obbligo dell’Italia a partecipare alle azioni che si richiedono necessarie contro chiunque abbia aggredito un Paese membro dell’Alleanza Atlantica.
Sarebbe comunque, semplicistico e riduttivo parlare di una Destra favorevole alla guerra e di una Sinistra contraria.
Credo che le nostre divisioni risiedano nel fatto che alcuni vorrebbero imprimere un mutamento alla politica nazionale mentre, altri, vorrebbero che l’Italia mantenesse la linea di condotta già usata in precedenza.
Un vecchio adagio recita che, chi dimentica gli errori del passato, rischia di commetterli nuovamente in futuro.
Nessuno, infatti dovrebbe dimenticare, i tanti morti avuti quando questo Paese entrò in guerra (in difesa dell’Europa e della democrazia) contro Hirohito, Mussolini e Hitler.
Nessuno dovrebbe dimenticare lo sbarco in Normandia e l’elevato costo, in termini di vite umane, che esso ha comportato.
Pensando a tutto ciò, possiamo noi dimenticare 11 settembre e le migliaia di morti innocenti? Possiamo dimenticare le immagini che ci giungevano dai c.d. Stati canaglia.
Dove nelle piazze si bruciavano le bandiere americane e si festeggiava la riuscita dell’attentato?.
Nessuno di noi, inoltre dovrebbe dimenticare la dichiarazione di Bin Laden:” combatterò affinché tutto il mondo diventi mussulmano con le buone o con le cattive”.
Tali dichiarazioni per noi occidentali sono incomprensibili, così come i testamenti dei capi kamikaze.
Alcuni di questi non vogliono la presenza di essere impuri al loro funerale (donne e animali), altri esigono che nemmeno intorno alla loro tomba ci siano essere impuri quali possono essere le donne incinte.
Si tratta di atteggiamenti che, nel mondo occidentale, sono incomprensibili e riportano il pensiero alle Torri gemelle in fiamme, anche se, poi, mi fermo a meditare su quel velivolo precipitato su un bosco della Pennsylvania, perché la gente a bordo, ribellatosi al destino che li voleva prossime vittime di uno schianto sui simboli degli U.S.A., hanno preferito un eroico suicidio.
Non so se a costoro siano stati attribuiti onori e meriti speciali ma, per me, fanno parte degli eroi silenziosi dei nostri giorni.
Dobbiamo renderci conto che la colonizzazione mussulmana in Occidente è già iniziata, e che permettendo a questi di costruire moschee sul nostro territorio e di pregare per la cancellazione della nostra civiltà, non facciamo altro che indebolirci giorno dopo giorno.
Temo che questa invasione mussulmana, nel giro di pochi anni, ci renderà una minoranza a casa nostra e, a causa della loro intolleranza, dovremo rassegnarci ad adottare il loro sistema di vita.
Mi chiedo ancora non è forse nostro dovere tutelare la nostra civiltà da chi vuole istituire la sua con la violenza?.
Lino ADAMO

domenica 29 agosto 2010

AVETE DETTO "PADANIA"?



Scritto da Marcello de Angelis


Non se n’è accorto nessuno, ma a un certo punto, in un dì di giugno, c’è stato un dibattito culturale. Intendiamo uno vero, di quelli in cui si discute del significato delle parole, dell’origine delle identità, di storia, geografia e così via.
Ovviamente, come ormai ogni giorno accade, la cosa è stata presentata sotto altra forma, più immediata, più superficiale, più plateale, così da farne una notiziola da quotidiano.

Il presidente della Camera Gianfranco Fini ha detto che la Padania non esiste, che è un’immagine propagandistica senza alcun fondamento storico, etno-antropologico o altro.

Di per sé la cosa potrebbe essere considerata persino banale. Sicuramente nessun leghista crede veramente che esista o sia mai esistita una cosa che si chiama Padania, né che si tratti di un’identità nazionale o addirittura etnica. Molti leghisti, nel tempo, hanno imparato a trastullarsi con il mito di una cosa che non c’è mai stata ma che, sotto sotto, gli piacerebbe pensare che un giorno potrà esistere. Una sorta di Utòpia dove tutto è come dovrebbe essere: i treni arrivano in orario, nessuno ruba o truffa, non si parla ad alta voce (soprattutto al cinema) e non si buttano cose per strada. Nessun leghista piemontese ovviamente crede d’essere uguale a un lombardo (anzi, nessun milanese penserebbe mai di essere uguale a un brianzolo), anche perché molti degli uni - e degli altri - sono di fresca origine calabrese, pugliese e siciliana.

I leghisti, nel loro immaginario, pensano però che dopo un paio di generazioni passate al Nord, si diventi dei buoni lavoratori e in generale dei migliori cittadini, perché c’è una cultura diversa, più civica, più efficiente, meno “furba” e più onesta. E alcune di queste considerazioni sono - ahinoi - così vere, che piacerebbe a tutti che i leghisti, anziché pensare di privatizzare questi buoni esempi confinandoli in una porzione dell’Italia, s’impegnassero per farne la cultura diffusa di tutta la Penisola.

Noi che veniamo dalla cultura underground della destra post-sessantotto, sorridiamo forse più degli altri di questa vague mitologizzante degli amici nordisti, perché ci sentiamo anche un po’ responsabili. In Italia, a dirla tutta, siamo noi che, animati da creatività ed entusiasmo giovanile in un periodo in cui la cultura italica ci rigettava, andammo a cercarci ogni possibile aggancio a culture marginalizzate o scomparse per fabbricarci una identità nella quale sentirci più a casa nostra. E senza arrivare a considerarci ultimi superstiti di razze superiori venute dallo spazio (e per questo odiati e perseguitati fino allo sterminio), ci trastullavamo con le saghe (molti dicevano “seghe”) nordiche e simbologie celtiche. Chi conosce un po’ la storia politica, sa che a certi riferimenti i leghisti ci sono arrivati piuttosto di recente e con l’aiuto di persone brillanti che avevano transitato per la destra giovanile.

Negli anni Settanta - per prendere le distanze dal “ciarpame neofascista” - noi ci scoprimmo appassionati di Alan Stivell e della musica celtica e innalzammo sui nostri vessilli la croce anch’essa “celtica”. Al tempo, ci sembra di ricordare, Bossi era ancora sul comunista andante o giù di lì. Per quelle straordinarie frivolezze dell’Italietta social-comunista, la croce celtica finì per essere archiviata come «simbolo di violenza e odio razziale» per decreto ministeriale ed è piuttosto curioso, a ben pensarci, che oggi che il ministro dell’Interno è uno che di queste cose dovrebbe capirci un po’ di più, quell’ignobile demonizzazione del retaggio gallo-romano non sia stata cancellata restituendo a quel simbolo la nobiltà sacra e storica che gli appartiene. Anzi, forse proprio i suoi compagni che rivendicano sangue celta cispadano dovrebbero farglielo presente. Ancora negli anni Ottanta marciavamo al suono di musiche irlandesi e organizzavamo tour militanti in Irlanda a celebrare il martirio di Bobby Sands e la resistenza dei cattolici celti contro i protestanti sassoni e, tornati a casa, aprivamo pub dove si serviva Guinness.

Insomma, cari amici della Lega, ci siamo arrivati prima noi. Nelle case di alcuni di noi potrete trovare ancora arpe - e persino arpiste! - celtiche, cornamuse, libri sul druidismo, bandiere bretoni e scozzesi e scritte in gaelico.

Malgrado queste passioni però, questi simboli e questi miti, la preferenza per la birra e l’idromele e magari per il rugby (che i Celti comunque appresero dai legionari romani…) non abbiamo mai dimenticato quale fosse la nostra Nazione e non abbiamo mai ammainato il Tricolore. Anzi, alcuni di noi, morti prematuramente, ci si sono fatti seppellire dentro, come alcuni dei nostri padri, nonni e bisnonni.

Quindi, con affetto, vi diciamo: confrontiamo i nostri libri sulle radici celtiche che troviamo sia in Liguria che nelle Puglie (dove, forse lo ignorate, ci sono splendidi menhir), cerchiamo insieme le tracce di quei popoli che, già prima di Roma, confinavano con gli etruschi e con le colonie greche, facciamo a gara a chi scopre nei toponimi più origini celte, germaniche o greche. Scopriamo quanto di noi è normanno e spartano, gallo e saraceno e gonfiamoci il petto d’orgoglio, perché - lo sapete anche voi - siamo il miglior prodotto della storia e della provvidenza. Grazie a Dio siamo italiani.

domenica 22 agosto 2010

L’amorale involuzione



La riflessione sui motivi che hanno provocato l’involuzione di A.N. ci conduce alla convinzione che il disegno particolaristico di Fini non va sostenuto, andava abbandonato, per lasciare posto a un progetto nuovo e più ardito.
Il cammino che abbiamo intrapreso era ben definito fin dall’inizio.
Tradurre in azione le nostre idee, interamente legittimate quando il popolo disporrà che noi siamo differenti o quando ci saranno delle tematiche da affrontare.
Il nostro posto è il vivere con la gente e per la nostra gente non per i palazzi del potere.
Si perverrà anche lì (con l’aiuto del popolo quando sarà sfiancato dal continuo blaterare inconcludente di politici legati più al loro scranno che alla loro gente), per tradurre in atto le nostre idee.
Prima di un partito viene il popolo verso il quale abbiamo l'obbligo dare delle soluzioni, nel caso contrario non siamo e saremo mai dissimili dagli altri.
Noi siamo la Destra un partito che porta in se l’orgoglio di legame alla propria terra ed al suo popolo, non a caso forse siamo gli unici che si pregiano dell’onore di chiamare la terra natia Patria e non Stato.
L’involucro che trattiene tutti i questuanti di poltrone, quelli che non sanno dire altro “tu non sai chi sono io”, si è dato il nome PDL.
C’è da domandarsi se il PDL non assomigli più alla Santa Alleanza sancita a Troppau.
Santa Alleanza che divenne strumento di oppressione pronto a soffocare sul nascere ogni proposta di libertà insorgente.
Il primo giudizio di recente storiografia valuta il PDL un partito fazioso che regge il potere politico grazie al potere economico.
Certo è che a prescindere dalle interpretazioni, l’azione politica del PDL è tutta rivolta a frenare i piccoli partiti che possono turbare l’azione del pensiero unico.
Il nostro popolo non dovrebbe mai dimenticare che ne la Destra l’impostazione dominante della sua azione politica mira al riscatto dell’orgoglio e morale della sua italianità.
Lino Adamo

giovedì 5 agosto 2010

Tu chiamale se vuoi... coincidenze



Finalmente Fini e signora hanno spiegato tutto: la fortuna è cieca, le coincidenze anche. Almeno per quanto riguarda Fini Tulliani & Partners. Ha ragione Fini: è solo una campagna di fango. Come è possibile parlare di paradisi fiscali, conti off-shore, scatole cinesi quando la signora Tulliani è la prima persona in Italia che dichiari una vincita miliardaria? È vero, l’ha fatto per giustificare tutte le proprietà della famiglia e gli ultimi acquisti immobiliari così da poter respingere le richieste di Luciano Gaucci, l’ex fidanzato, che rivendica la titolarità di un complesso di beni immobili e mobili, ma perché accanirsi contro chi si ripara dietro il muro della trasparenza? Perché non credere alla sfacciata fortuna della signora Tulliani?

D’altra parte che la compagna di Fini fosse una specie di Gastone in gonnella lo testimoniano chiaramente gli attimi fuggenti della sua vita. Raramente una persona ha la fortuna di coglierli tutti come è riuscito a Elisabetta Tulliani. Si fidanza con un compagno di scuola che soltanto casualmente è il figlio di un noto e ricco imprenditore. Che per pura coincidenza a sua volta diventerà il suo fidanzato.
Ma toglietevi quel sorrisino dalla bocca: lei era già ricca. Sul finire degli anni Novanta aveva, come hanno certificato i suoi legali, vinto più di un miliardo di lire dell’epoca. Quindi, quando Luciano Gaucci è costretto a lasciare momentaneamente l’Italia per problemi giudiziari, rifugiandosi a Santo Domingo, Elisabetta Tulliani, grazie alla buona sorte, che sempre veglia su di lei, riesce a superare lo sconforto trovando riparo in Rai prima di fare l’incontro della vita: quello con Gianfranco Fini.

Proprio una donna fortunata. Ma la fortuna in casa Tulliani è di famiglia. La madre, la signora Francesca Frau, è a capo di una società che ha curato un programma di scarso share sulla prima rete. Il costo per la Rai? Un milione e mezzo di euro. Ed è soltanto una coincidenza che la signora Frau fosse in quel periodo anche la suocera del presidente della Camera. Così come lo è il fatto che Giancarlo Tulliani, fratello di Elisabetta e quindi cognato di Fini, abiti in un appartamento a Montecarlo che era tra gli immobili di proprietà della Fondazione Alleanza nazionale, gestita, in qualità di tesorieri, da due uomini di fiducia del presidente della Camera, l’onorevole Lamorte e il senatore Pontone. Ed è proprio quest’ultimo che ieri in un’intervista al Corriere della Sera ha spazzato via qualsiasi dubbio sulla presenza di Giancarlo Tulliani nell’appartamento al 14 di rue Princess Charlotte di Montecarlo, accanto all’elegante Novotel: «Tulliani in quella casa? Solo una coincidenza».

E sul senatore Pontone è pronta a mettere la mano sul fuoco anche la vedova Almirante. Su Fini invece: «Lasciamo perdere». Sarà contento l’amico Tonino, Di Pietro, che chiedeva al potenziale alleato Fini di non mettere il bavaglio al Giornale ma le carte in tavola per chiarire. Fatto. A Di Pietro non si può dire no. Quindi, per favore, basta sospetti. Se proprio non riuscite a capire chiamatele, se volete, fortunate coincidenze.

martedì 3 agosto 2010

Una domanda anche sui beni della Tulliani



di Alessandro Sallusti

Le colpe dei padri non devono ricadere sui figli, come è noto. Figuriamoci se quelle delle mogli, o compagne come si usa dire oggi, debbano essere ascritte ai mariti. Ma se il marito è un moralista pubblico, un fustigatore di costumi, se per di più è anche presidente della Camera dei deputati, beh allora un po' d'ordine andrebbe fatto anche in famiglia. È il caso, a nostro avviso, del presidente Gianfranco Fini e della compagna, Elisabetta Tulliani.

La signora, come ha documentato il Giornale domenica scorsa, è stata denunciata dal suo ex compagno, l'imprenditore Luciano Gaucci, per appropriazione indebita. Gaucci è stato inquisito, assieme ai figli Riccardo e Alessandro, per associazione a delinquere finalizzata alla bancarotta fraudolenta. Le sue imprese infatti sono andate a gambe all'aria lasciando a secco creditori e fisco. Gaucci ha ammesso di avere intestato, poco prima di fallire e di fuggire a Santo Domingo, una ingente quantità di beni immobili e mobili (case, appartamenti, quadri di valore e auto di lusso) alla sua compagna di allora, l'attuale lady Fini, e ai suoi familiari proprio per sottrarli al crac e garantirsi una vecchiaia più agiata. Beni che ora la famiglia Tulliani (secondo Gaucci fece semplicemente da prestanome) si rifiuta di restituire al legittimo proprietario.

Non sono un giurista, ma il semplice buon senso dice che quel tesoretto non solo non è più di Gaucci, ma eventualmente neppure dei Tulliani. Quel patrimonio andrebbe infatti utilizzato per risarcire, fin dove possibile, i creditori del gruppo Gaucci e il fisco italiano. La distrazione di beni di una persona sull'orlo del fallimento e conscia di esserlo allo scopo di occultare ricchezze è infatti un reato, e pure grave. Ora, è ovvio che sarà un tribunale (il processo è in corso) a stabilire se Elisabetta Tulliani (all'epoca praticamente nullatenente) fosse consapevole dei motivi di tanta generosità da parte del compagno, ma se per caso il presidente Fini avesse goduto anche solo in parte di quei beni (per esempio una casa) sarebbe comunque un problema etico e politico non indifferente. Può un presidente della Camera anche solo rischiare di essere coinvolto in una vicenda familiare di un eventuale concorso in bancarotta fraudolenta, al di là del fatto che il reato sia prescritto, cioè di soldi sottratti a poveri cristi e allo Stato del quale rappresenta la terza carica? E a maggior ragione può farlo un presidente che pretende dagli altri un rigore morale tale da chiedere le dimissioni da ogni carica politica di persone semplicemente indagate, cioè in assenza di sentenze non solo definitive ma addirittura di primo grado?

Ieri Elisabetta Tulliani ha dato mandato ai suoi legali di querelarci. La nostra colpa? Aver pubblicato atti giudiziari, quelli relativi alla causa che le ha intentato Gaucci. Strano, evidentemente lady Fini non la pensa come il marito, che di recente ha intrapreso feroci battaglie contro la legge sulle intercettazioni che limita la libertà dei giornali di rendere pubblici atti giudiziari. Prima di tutto, sostiene Fini, viene la libertà d'informazione, soprattutto se si tratta di personaggi pubblici che non devono avere diritto alla privacy. Evidentemente marito e moglie non si parlano. O forse si parlano, ma sono giunti alla conclusione che quello che deve valere per gli altri non deve valere per loro. Se questo è il «Futuro e libertà per l'Italia» che ci aspetta, siamo messi proprio bene.

domenica 1 agosto 2010

L'ultima cartuccia del kamikaze Fini




di Marcello Veneziani


Dal Msi ad An, la carriera politica del presidente della Camera è stata quella di un curatore fallimentare. Ormai non ha più un futuro, ma attenzione: l’unica cosa che può ancora riuscirgli è danneggiare il governo: Non può costruire un'alternativa al Pdl e il leader del terzo polo è già Casini. Quando si vantava: "Combatto i ribaltoni da tutta la vita"

Fini è un kamikaze che passeggia per il Transatlantico imbottito di trentatré chili di tritolo. Il suo potere è tutto in negativo, non ha sbocchi politici costruttivi ma solo distruttivi; non può dar vita a prospettive ma forse può far saltare in aria il governo e il Parlamento. Il suo miniclub di parlamentari che lo seguono e la possibilità di collettore degli umori antiberlusconiani danno a lui un’arma micidiale. Non sottovalutatelo da quel punto di vista. Del resto la sua carriera politica è stata più quella di kamikaze o di curatore fallimentare, prima dell’Msi e poi di An, che di fondatore. Portò a schiantarsi i partiti che ha guidato. Sul piano politico, Fini rappresenta solo se stesso. Non esprime una linea, un programma, un disegno politico e tantomeno civile e culturale. Non rappresenta un modo diverso di amministrare né un’esperienza diversa di governo, non dà voce a un significativo bacino di opinione pubblica e non è nemmeno una novità politica. È infatti l’unico leader che guidava un partito nazionale già negli Anni ottanta. Non rappresenta poi la destra ma la sua dissoluzione. Con lui la destra ha cessato di essere un soggetto politico per ridursi a una gelatina. Fu lui del resto a suicidare An, dopo aver celebrato il suicidio dell’Msi. Di quel piccolo, sterile e orgoglioso partito, Fini condivise il nostalgismo neofascista usato per fini elettorali ma non la passione ideale né la fiera e testarda coerenza. Condivise il rancore ma non l’etica della lealtà. In questi anni non è stato nemmeno il contrappeso nazionale e statale del leghismo e del mercatismo. A Berlusconi rimprovera ora quel che lui è stato nel suo partito, un autocrate illiberale che reprime il dissenso e il libero dibattito interno. Chiese perfino la testa di questo giornale. E ora ti trovi un illiberale venuto dal passato come il vate di Futuro e Libertà... Due vaghezze che dicono il nulla e negano ogni identità e ogni tradizione.
Deve la sua fortuna politica alla sua indubbia efficacia oratoria e a tre persone che lo portarono in alto: Almirante che lo volle suo successore, immaginando che il leader della destra di opposizione dovesse avere come requisito quasi esclusivo l’oratoria perché destinato solo alla piazza; Tatarella che lo considerò un bel contenitore vuoto e trasparente che assumeva la sostanza e il colore di chi era alle sue spalle; e Berlusconi che lo inserì nel gioco politico delle alleanze e lo portò al governo. Dal primo attinse la capacità oratoria e il lessico neofascista, ma senza l’estro e il carisma di Almirante. Dal secondo ebbe in dono la destra politica e An, nata col concorso di pochi altri, ma senza avere l’intelligenza politica di Pinuccio. Da Berlusconi ha avuto la grande possibilità di uscire dall’angolo di un partito marginale e andare addirittura al governo e poi alla presidenza della Camera. Ipotesi impensabili se fosse stato lui il leader.
Prescindo dalla ricerca delle ragioni private o psicanalitiche che lo hanno portato negli anni a questa svolta. Fini porta con sé una pattuglia di reduci missini. Con una spericolata manovra politica ha lasciato un partito della consistenza di An per rifondare un partitino della consistenza del Msi negli anni più bui. Ma un Msi ad uso personale. Ci sono alcuni suoi famigli e miracolati, molti sono uniti dal collante antiberlusconiano e da un’ansia di legittimazione da parte del potere mediatico, culturale e giudiziario. Ma ci sono anche persone perbene o profili di qualità: Baldassarri non è Ronchi, Granata non è Bocchino, Viespoli non è Proietti, tanto per fare qualche paragone. Mai sparare nel mucchio e farsi prendere dal livore.
Fini non può essere il leader del terzo polo, perché c’è già Casini che è più credibile nel ruolo centrista per la provenienza democristiana ed è stato più coerente: quando ha rotto con Berlusconi è uscito con le sue gambe e non si è fatto cacciare, dopo aver ottenuto la nomina a presidente della Camera. Sarebbe grottesco che ora finisse come vice di Casini, a fianco di Rutelli. Fini si è giocato il suo ruolo di erede del Pdl e non ha la statura e la capacità per poterlo rifondare su nuovi valori e nuove sensibilità. Non si è mai fatto sentire per quindici anni, quando in molti avvertivamo il bisogno di una correzione di rotta, o anche solo di rappresentare nel Polo una diversa sensibilità politica, civile e culturale. Non lo abbiamo mai visto impegnarsi a combattere dentro e fuori il centrodestra per selezionare una migliore classe dirigente, per filtrare ministri e capataz, valorizzando i più capaci. Semmai ha solo posto veti per ragioni di scuderia o perché vendicativo (famigerato quello su Tremonti ma ce ne sono tanti altri). La pattuglia che ha piazzato nei posti di comando e al governo è tra le più scadenti che ci siano in giro. Nonostante lo critichi da diversi anni, non sono affatto contento oggi di descrivere la sua vacuità politica e di notare l’assenza di un disegno politico e culturale oltre il presente. Il vuoto che ci circonda è impressionante, intorno a Berlusconi e dopo di lui c’è il nulla, e si vorrebbe che qualcosa si intravedesse all’orizzonte. Ma non è Fini la speranza di un diverso avvenire. Non so se hanno fatto bene a metterlo fuori dal partito, ogni fallimento di un accordo politico è una sconfitta per tutti, seppure in diversa misura e grado di responsabilità. Certo, Fini e i finiani erano ormai fuori e remavano contro il governo e il loro stesso bacino elettorale di utenza, contro la loro storia prima che contro i loro alleati; non erano più leali non solo al leader ma anche all’opinione pubblica dei suoi elettori. A giudicare dall’assenza di prospettive, Fini sembra giunto al capolinea. Ma il pericolo oggi è proprio quello: la disperazione del kamikaze, che ha solo un potere in negativo. Nell’orizzonte ubriaco del nostro tempo, fra nugoli di propagandisti del nulla che ci circondano, tra forze politiche che collassano, non si può escludere che Fini possa trovare anche un suo spazio. Ma se ciò avverrà, vorrà dire che il contenitore vuoto e trasparente avrà trovato qualcuno pronto a riempirlo. Ma di leader così, metà kamikaze e metà pilotati, francamente non sappiamo che farcene.